La personale "stellare" di Natale Addamiano presso la galleria "Studio 54" a Molfetta: dall'immensamente grande all'infinitesimamente piccolo. O viceversa.

Si è tenuta lunedì 27 settembre, presso la galleria Studio 54 a Molfetta, la più recente personale di Natale Addamiano dedicata - mi sia prosaicamente consentito - all'osservazione del cielo, alla contemplazione dello stesso con tutto il potere e il contenuto evocativo lì concentrato. E già la parola "concentrato" appare quasi distonica se rapportata all'infinità degli spazi narrati dal pennello di Addamiano. Giustamente il poeta Zaccaria Gallo, intervenuto nell'inciso didascalico in diretta streaming a commento della serata insieme a Marta Maria Camporeale, presidente dell'ASP L'Ora Blu, ha sottolineato come la mente umana. per quanto spesso si cimenti nell'esercizio filosofico legato al concetto di infinito, incontra difficoltà insormontabili nello stesso concepimento di tale pensiero che è quanto di più distante dalla finitezza dell'essere umano e forse proprio per questo carica di un fascino che si ritrova tutto nella elaborazione pittorica di Addamiano.

Ascoltando la stupenda interpretazione lirica di Gallo e Camporeale che si destreggiano magistralmente in un testo che lega l'inevitabile Infinito di Leopardi fino, all'indietro, al XXX canto del Purgatorio di Dante, miro e rimiro le tele esposte lasciandomi trasportare in un viaggio concettuale attraverso le "polveri" a cui Addamiano sembra dare un senso compiuto nell'evocazione cosmica dell'assolutamente incompiuto e continuamente in fieri.

In questa meditazione trascendentale resto affascinato dal concetto dell'ossimoro e del contrasto che in qualche modo e in qualche misura vengono prepotentemente evocati alla mia mente dalle riflessioni che si snocciolano durante la serata e soprattutto dall'osservazione dell'opera di Addamiano. Perché? Cosa c'entrano ossimoro e contrasto? Dove e come queste idee sovvengono così prepotentemente alla mente?
Certo chi scrive non ha strumenti sufficientemente raffinati per poter dar vita ad una vera e propria critica d'arte né cova questa pretesa. Tuttavia, se è vero - come credo sia vero tanto per un letterato quanto per un pittore o per uno scultore - che l'artista, una volta compiuto il suo percorso e realizzato nella forma d'arte a lui più affine, consegna al pubblico la sua opera rendendolo partecipe della "proprietà filosofica" della stessa, allora è anche vero che quell'opera - qualsiasi opera - diventa inevitabilmente parte dell'anima di chi contemplandola ne viene da un lato catturato e dall'altro se ne appropria nell'intimo. E in quei cieli ci sprofondo con prepotenza e senza paura lasciandomi travolgere dalle profondità multidimensionali che suggeriscono. Ecco il primo ossimoro, il primo contrasto: abituati come siamo a considerare - almeno fino alla teoria della relatività di Einstein - spazio e tempo come due categorie opposte l'una all'altra (non si può essere nello stesso tempo in due spazi diversi né nello stesso spazio in due tempi diversi), l'osservazione delle opere di Addamiano diventa un tuffo nello spazio sconfinato che l'artista prova a sintetizzare nella bidimensionalità di una tela riuscendo a non sacrificare la percezione della profondità sferica attorno al fruitore di quelle opere. E quello spazio così ricco di polveri, di "luci" sempre diverse, restituisce un senso di distanza che inevitabilmente si accentra nella diversa intensità di ciascuno di quei granelli di polvere di luce. Così, quasi magicamente, facendo ricorso alla scienza - che compartecipa a fornire una chiave di lettura dell'arte e per una volta ne è corredo e non protagonista - quel "segmento" di spazio diviene anche percezione di tempo nella consapevolezza scientifica che la diversa intensità della luce restituisce il diverso tempo in cui l'astro sta brillando o ha brillato. La scienza ci insegna infatti che, data la velocità della luce, il momento in cui quel bagliore giunge a noi non coincide con il momento in cui si è realmente realizzato rimandandoci, così, indietro a una storia che attraverso lo spazio ci restituisce anche un tempo che diventano fascinosamente cornici dell' assoluto nel quale si consuma quella meditazione messa in opera e suggerita da Addamiano.

Scrive Pietro Marino in apertura del catalogo che accompagna la mostra in questione «Nello Studio 54 Addamiano propone un ciclo di Cieli (un grande dipinto e un gruppo di tele più piccole) di lirica astrazione: stelline lontane anni-luce e polveri cosmiche mettono in vibrazione lente tessiture complesse di spazi in apparenza monocromatici. Campi infiniti di estasi mentale chiusi soltanto alla base da una striscia con sentori di terra arida (...)». Osservo ancora, rapito, quelle tele: cos'é esattamente quella striscia di terra? Sicuramente l'evocazione del punto di vista di chi quel cielo lo osserva e lo contempla; la memoria del locus, col suo tempo, nel suo spazio, in cui l'elaborazione concettuale prende forma. Ma non può essere solo questo o per lo meno lascia margini di incompiutezza che chiedono di essere risolti nell'ottica della riflessione "a tutte stelle". Mi ritorna in mente quella particolare tecnica cinematografica per la quale il focus spaziale  si amplia progressivamente da un appezzamento di terra, al territorio e progressivamente alla città, alla regione, al paese, al continente, al pianeta, allo spazio del pianeta, al suo sistema planetario, alla galassia, allo spazio infinito... per poi di colpo essere racchiuso improvvisamente in un occhio, nella pupilla e nell'iride dell'uomo stabilendo quel legame indissolubile fra l'essere umano e il suo contesto più ampio in un rapporto di contenuto-contenitore continuamente "reciprocizzato" fino alla perfetta identificazione. Ecco un altro ossimoro, o per lo meno, apparente tale. Un altro contrasto.

Non tutte quelle tele sembrano avere nello stesso modo e nella stessa misura quella striscie di terra: scopro così che nulla mi vieta di guardare ad alcune di quelle "esplosioni" come implosioni dell'osservazione, che mi riportano a scoprire la pelle di una donna, quella di un uomo nei rosa e nei neutri onirici attribuiti al cielo; all'iride cromatica del blu di un occhio umano coi suoi mille baluginii riflessi; perfino al fuoco, al suo fitto crepitio pulviscolare che non è solo o tanto fuoco di falò ma pure e soprattutto espressione cosmica - celeste appunto, anche nei dipinti più "rossi" - con tutto il suo corredo di materia isolata in un momento del tempo a sé stante e quasi indipendente dal tempo dell'osservazione. 

È un fascino inebriante, allora, scoprire il senso di quelle strisce di terra, dove ci sono, evidentissime, e dove paiono solo evocate o addirittura scompaiono. Il punto di osservazione, si diceva; il ricordo e la consapevolezza della propria dimensione finita, le proprie coordinate spazio-temporali ma anche d'altro canto il posto più concreto da cui staccare i piedi, abbandonare la propria finitezza, per l'ascensione a quegli spazi siderali evocati, desiderati e rappresentati nelle pitture di Addamiano.
«Capivo fin da allora / quanto è angusta questa terra» (Anna Achmatova). Anche tuttavia quello spazio di appartenenza umana dal quale è impossibile staccarsi definitivamente o al quale, inevitabilmente, prima o poi riportare i piedi.



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