"Nessuno è troppo lontano": per questo «L'artista ha il dovere di rendere visibili i sogni». La personale di Pino Spadavecchia a Molfetta.

 Il tratto personale di Pino Spadavecchia, suo proprio e di nessun altro; il segno distintivo come una voglia sulla pelle, come una ruga d'espressione del tempo, come la spinta ideale e la maturità umana e filosofica del pensiero che dietro quel tratto nasconde e mostra le dinamiche dell'animo umano nel continuo interfacciarsi alla realtà circostante, ai suoi protagonisti, ai suoi luoghi, alle memorie. Prendendo a prestito, un po' arditamente, le splendide parole di Enrico Panunzio, direi tratti il cui «assalto così imprudente diventa, per chi voglia misurarlo, un legittimo allarme di realtà altre - ma non altrove - e dunque sviscerate, presentite, di volta in volta gridate oppure infisse e appagate dalla non luce».

«L'artista ha il dovere di rendere visibili i sogni» sostiene l'artista: niente di più vero nella sincerità espressiva dei suoi cartoncini in mostra presso la Galleria 54 a Molfetta a partire dal 8 Ottobre. E il titolo della mostra curata e aperta dal critico d'arte Gaetano Centrone è eco, prosieguo ideale e realizzazione di quel pensiero: Nessuno è troppo lontano... per essere raggiunto da un sogno, per goderne, per lasciarsi catturare e immergervisi fosse anche per osservarne le stranezze quanto le bellezze o per additarlo o perfino per dilaniarlo facendolo a pezzi. Nessuno è troppo lontano per entrare nella dimensione spalancata dai tratti evocativi dell'arte di Spadavecchia che propone feritoie concettuali sintetizzate nel gioco dei colori e nella sintesi del disegno talvolta fino a negarli, se è vero che la china è il nero e «può anche darsi che il nero, oltre il suo scenario, debba covare una ginecologia del Sacro e del Tremendo» (E. Panunzio). Ed è un fascino a cui non si resiste quello proposto dall'osservazione distonica e distopica a cui si è costretti quando materialmente ci si ferma di fronte a un'opera di Pino. Ne cogli l'estrema sincerità dell'artista coniugata in modo onesto e disarmante alla feroce verità del mondo "rappresentato". Che è certo la sua verità ma che non ha velleità e presunzioni oggettivizzate e oggettivizzanti ma si configura e si propone come la verità di una proposta, di una chiave di lettura che ha già e tutta dentro di sé la dinamica perfetta della (in)comunicabilità anche fra artista e fruitore dell'opera.

Una proposta, anzi direi un'offerta, che non è mai descrittiva (e come potrebbe?) perché descrivere sarebbe già un tentativo di inquadrare il mondo in una dimensione precompilata e venduta come tale, impacchettata in una scatola da supermercato con scritte e disegni chiassosi finalizzati alla sola vendita meretricia del prodotto. Non c'é nulla di presuntuoso né di pretestuoso nella rabbia e nella velocità con cui l'artista tenta di catturare il sogno prima che sfugga fermandolo su tela o cartoncino senza mai inquadrarlo in uno scatto definitivo. E l'opera finita (se davvero sia possibile usare questo aggettivo nei confronti delle opere di Pino Spadavecchia) diventa essa stessa base, tela su cui dipingere, terreno in cui innestare il tempo non ancora realizzato, ciò che è da venire: quello a cui è ancora possibile affidare slanci di speranza. E per questo Nessuno è troppo lontano...
«I traguardi li decidiamo noi - dichiara l'artista sulle pagine de l'Altra Molfetta nell'aprile 2021 - ma i sogni fanno da tela a quello che sarà».

Non a caso si è parlato, nella serata di presentazione del 8 Ottobre, di due direttrici importanti nella genesi e nella fruizione dell'opera di Pino: la poesia e la dimensione pubblica. Quest'ultimo tema, caro al critico Gaetano Centrone che più volte ha sottolineato alla stampa, anche con particolare riferimento al microcosmo molfettese, come la dimensione pubblica non può che passare per una visione d'insieme rispetto all'arte e alla proposta di questa da parte delle istituzioni, non già e non solo come qualche sputo messo lì, più o meno a caso, tanto per fregiarsene in prospettive diverse ed estranee al senso ultimo dell'arte che può essere anch'essa politica, negli esiti quanto nella gestazione e nella genesi, ma di certo mai e poi mai opportunistica quando non addirittura elettoralistica. O perfino ammantata di una noiosa e stantia aura di meridionalismo vittimista quasi in barba ai vivaci germogli e zampilli culturali che nel passato, neppure tanto lontano, hanno animato e dato vigore alla temperie culturale molfettese e non solo: «La profondità di un Sud mitico e accattone» come scrive Enrico Panunzio, del quale «Noi conosciamo invece il privilegio di una sventura che nell'archetipo di una solarità piena ci riconduce a una nausea romantica e demopolare di nessun profitto».

E la dimensione pubblica, rispetto all'opera di Pino Spadavecchia, è una chiave imprescindibile se non per comprendere (ammesso che quest'arte chieda di essere compresa) di certo per accostarsi e lasciarsi trasportare nel mondo onirico dell'artista che tuttavia non è mai (sottolineo mai!) avulso e distante dall'osservazione della realtà. Il gioco distopico che ne deriva è l'essenza del fascino di questa pittura che nell'ansia comunicativa esprime un fuoco umano e politico (nel senso più alto del termine) che si traduce in un abbraccio benevolo di chi, anche con rabbia sottolinea ciò che impedisce al sogno di divenire futuro. Diventa chiaro allora il perfetto connubio fra i concetti di poesia e di pubblico e si comprende bene il perché Nessuno è troppo lontano... né dovrebbe.
Non mi stupirei neppure se in questo titolo Pino abbia voluto nasconderci qualche evocazione più concreta, magari legata ad eventi perfino connessi alla cronaca dei nostri giorni in un'ottica ecumenica che renderebbe giustizia a quest'impianto concettuale.

In questa prospettiva si sono innestate più che a proposito due riflessioni condivise, nell'arco della serata: la difficoltà diffusiva dell'arte contemporanea per lo più attribuita alla difficoltà di comprenderla e di fruirne secondo standard a cui siamo abituati per tradizione, per convenzione o per sforzo "a buon mercato" e la mancanza di pubblico giovane rispetto all'offerta dell'arte in genere, non solo - ma ovviamente - contemporanea.
Al di là dei giudizi espressi in quella sede, ritengo nel primo caso che sia ancora enorme lo sforzo da compiere per affrancarsi dall'idea ormai metabolizzata quasi in modo assoluto, che l'arte sia solo quella figurativa nella presunzione di comprenderla perfettamente ma nella certezza - meno diffusa e popolare - che in realtà quell'arte nasconda e sia costruita su una serie di differenti livelli di fruizione rispetto ai quali ci si ferma a quello più di superficie credendo di aver compreso già tutto. Nel secondo caso, invece, la certezza che non sia vero che i giovani non chiedano arte ma che, al contrario, ci sia una gran voglia di arte, di poesia, di riflessione, di bello. In questo senso probabilmente utile sarebbe una riflessione da parte di chi ritiene di porsi nella posizione dell'artista partendo innanzitutto dalle responsabilità proprie del mondo dell'arte. E intendo le arti visive quanto quelle letterarie, sia che si tratti di pittura o di scultura che di poesia o di narrativa. 

Gli artisti e i presunti tali (anzi, soprattutto questi ultimi) hanno da decenni imboccato una strada edonistica e autoreferenziale che riesce a consumare tutta la spinta comunitaria e pubblica in un malcelato e colpevole narcisismo che tende ad essere sempre più esclusivo. E non inclusivo, come dovrebbe essere e come dimostra essere una personale che porta quel titolo. Nessuno è troppo lontano sembra essere esattamente agli antipodi di un atteggiamento piuttosto diffuso da parte dei protagonisti delle arti che troppo spesso paiono dire "Io parlo di me... ma tu cerca di non starmi troppo vicino".
Non è vero che i giovani (ma più in generale il pubblico) non cerchino arte nelle sue diverse forme. È probabilmente l'artista che, concentrandosi su se stesso come oggetto dell'elaborazione artistica, non riesce più ad abbandonare la dimensione individuale e individualistica per aprirsi al pubblico nella dimensione collettiva e compartecipativa. Rimanendo lì dov'è, non può né sa più fare altro che concentrarsi su se stesso fino a tentare l'esaltazione narcisistica di quel solo oggetto artistico che gli resta: se stesso. È qui che mi pare di intravedere il danno che, congiuntamente all'"asettico delirio" pubblico e istituzionale, diviene il problema. E all'interno di un contesto collettivo quale può essere una manifestazione di poesia o una collettiva quanto una personale mostra d'arte il rischio è che questo ne divenga il contenuto preponderante.
Nessuno è troppo lontano dimostra tutta la distanza da queste posizioni ed è una distanza che è identitaria e identificativa di un percorso personale, poetico, filosofico e politico che è e si esprime in quel tratto distintivo tipico di Pino Spadavecchia di cui si diceva in apertura.

Strutturalmente molto ben concepita, la personale è stata quindi anche luogo di condivisione di idee e riflessioni sotto la guida illuminata del critico Gaetano Centrone che a chiusura del suo intervento ha voluto leggere un brano del molfettese Enrico Panunzio scritto a corredo dell'evento Arte e Fotografia dell' agosto 1986 che qui riporto integralmente tanto per il fascino estetico quanto per lo spessore contenutistico a cui ci ha abituati Panunzio e  particolarmente opportuno nella circostanza:

«Deve essere che allo zenith per una sua maestosa e ancora tolemaica maestà il sole contiene la sua morte nera. Così fosse, ogni realtà appare e vuole i suoi colori, il glutine dei volumi, la caparbìa di un disegno mentre l'occhio, dietro l'illusione di Dedalo "ricorda" la prima esplosione di una tragedia. Strabismi e delirii purtroppo in queste terre abbassate dalle geologie troppo spesso vennero esorcizzate come infrazioni a una norma unica di luce meridionale, biancamente distribuita per il piacere ottico di tutte le arcadie. La profondità di un Sud mitico e accattone ha fatto il resto. Noi conosciamo invece il privilegio di una sventura che nell'archetipo di una solarità piena ci riconduce a una nausea romantica e demopolare di nessun profitto. Questi templari guerreggiano, come appare dai loro eroici furori, per una riscossa ardita dal nero più nero del nero che lo stesso Pitagora prefiguarava nelle parabole e nei numeri delle Armonie. Nessuna iconoclastia e chiasso sussultorio li rende gregari e subalterni a una filosofia del negativo quando direi all'inverso che il loro assalto così imprudente diventa, per chi voglia misurarlo, un legittimo allarme di realtà altre - ma non altrove - e dunque sviscerate, presentite, di volta in volta gridate oppure infisse e appagate dalla non luce.

Ho visitato gli studi e i cavi di questi neo-massoni tra le infanzie mimetiche dei ballatoi, e grappoli dei neonati, nelle controre dei vicoli massacrati dal solleone. Mi riconfermo anch'io forse nel loro Tempio nella mia mania di un non vissuto ma vivente, di un non memorato ma memorabile. Come dire che dagli archetipi più sepolti, per chimico turbamento, ci discendono stampi originari, anche se più crudeli, di nascite. Può anche darsi che il nero, oltre il suo scenario, debba covare una ginecologia del Sacro e del Tremendo. In queste terre esperidi come le vollero gli altri per cromarci e anchilosarci nella stupidità di una favola, quando restasse ancora un'autentica radice mediterranea, torni l'urlo demente di Oreste dall'esilio intemporale di un vaso».

Enrico Panunzio
Molfetta, 25 agosto 1986



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