La necessità di una profonda immersione nelle «Contraddizioni»: la lettura di Giulia Notarangelo.

Poesia complessa, colta, ricca di riferimenti mitologici e artistici. Padronanza del linguaggio che talvolta si impreziosisce, ricchezza lessicale. Fin dalle prime pagine emerge la dovizia di immagini.
Poesia meandrica.

È come se chi scrive giocasse a trasportare il lettore nei labirinti della sua anima (Fingendo). Qui interiorità ed esteriorità sono legate. E tutto ciò che circonda il poeta si riflette nei suoi stati d’animo. Senso di vuoto e di solitudine. Difficoltà mai superate. Un gioco infinito di dentro-fuori e fuori-dentro.

Fingendo

Il tempo ha le ore contate:
vorrei urlarlo agli angoli sopiti del giorno,
alle controre morte sulle pareti bianche.
Sussurrarlo vorrei
ai moniti dei vecchi campanili
alle sedie di terra e frutta
soffocate dallo sguardo della pietra. 

Il tempo ha i minuti contati:
vorrei gridarlo ai nostri abbracci eterni,
alle notti di strade veloci
lentigginose di stelle e residui di città.
E ancora lo direi
agli spigoli plasmati dei ricordi
al petto fiero e al mento alto di ogni gesto
al fuoco delle onde e al ghiaccio della terra. 

Solo un secondo ancora...
il tempo di dirlo alle tue parole sorde
agli istanti persi nell’assenza
all’anima incredula.

 

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Splendida la rappresentazione de La città  fantasma, la poesia dedicata a Ada De Judicibus Lisena. 
Lirismo, introspezione, cripticità caratterizzano le liriche da Notturno a Canto dove riscontro echi tagoriani;  in questo caso il poeta ci mostra un sé  completamente diverso da quello delle precedenti liriche, tra cui Terra. Più procedo nella lettura e più mi ritrovo  in un groviglio di emozioni, ricordi e sensazioni  in continuo affiorare. Tento invano di afferrare ciò che sfugge. 
Echi dannunziani in Notturno della rinascita e della morte. Può essere l’intento di chi scrive quello di mostrarci la difficoltà nel dipanare i nodi esistenziali che ci avvolgono? 

Notturno della rinascita e della morte 

È triste ammettere
che un’emozione si rigenera
nel silenzio. 

Il grillo non fa che corteggiarti
e ammonirti le rughe dell’ulivo. 

La luna offesa innamorata
prova a tenerti nell’abbraccio del perdono. 

È triste ammettere
germogli di vita
nel silenzio. 

Il sibilo profumato della terra scura
dai piedi riveste la tua voce. 

La tua voce non dice che meglio ti perdi
fra i crateri ombrosi della curiosità, 

fra gli avanzi di luce malata
che hanno il gusto di neon di fronte al sole. 

È triste ammettere
che rinasci nuova
nel silenzio. 

La foglia novembrina calpesti infastidita,
nocchiere di anime del passato, 

i morti tra le fronde ti sorridono
con denti di stelle che non rifrangi. 

Sei l’anima e il vapore
che ha perso possesso della carne. 

È triste ammettere
che ti rigeneri
nel silenzio. 

È triste ammettere la fine dei tuoi ricordi
             ammettere la tua fine nei ricordi. 

La notte sa abbagliare di azzurro
ma non tocca i crateri ombrosi dove precipiti 

urtando qua e là in silenzio.


Ho l’impressione di arrampicarmi su specchi di intuizioni e deduzioni in un pessimismo di base, in una inquietudine che solo di tanto in tanto trova pozzanghere di pace  e di quiete; mi pare di essere di fronte a  un continuo magma o meglio al ribollire di una coscienza (Del dolore).
Cerco di decifrare i messaggi, lasciati sulla carta, di districarmi in quest’altalena di luci e ombre, ombre e luci. Mi ritrovo in  una poesia immaginifica e  affascinante anche nella sua impenetrabilità (Occhio e vetro).
Imprendibile, sfuggente poesia…

Mi verrebbe da chiedere al poeta :“Chi fuor li maggior tui?” poeticamente parlando. Il suo è “un tormentato gioco di percorsi”. Barocchismo di base attraverso la metafora e la metaforizzazione della vita che diventa mistero; un fiume senza fine (Cornamusa, Girasole al vento, etc.). 

Poesia difficilmente definibile. Volutamente criptica? Un vortice di immagini in una sorta di onirismo indotto dal moltiplicarsi delle parole e delle visioni (Poesia dalla stanza).
Il poeta ad un certo punto  appare “scomposto nei frammenti asimmetrici di un puzzle”, ma con la voglia di ricomporsi “graffiando per terra il mosaico disperso” (Montagne russe). Realtà in frantumi in un barlume di fiducia: tutto e il contrario di tutto.
Indubbia bravura tecnica.

Che dire? C’è sempre quel quid fluido che non si lascia afferrare. Il titolo, Contraddizioni, la dice lunga. Vedo una luce nell’incipit in quel suo “zigzagando cieco alla stella polare”, ma il finale mi porrà di fronte all’enigma del poeta: “padre e figlio dell’inchiostro che mi intona disperato  il suo lamento: perché mai mi creasti?” ed alla risposta: “per salvarti”!

* * *

Poesia a volte difficile (cito Giorgio Barberi Squarotti) e sibillina che presuppone un notevole retroterra culturale. Poesia di nicchia. Mi sono messa nei panni di un lettore medio e onnivoro, trovandomi subito di fronte a enigmi e difficoltà, le difficoltà di un cammino aspro e irto dominato dall’incertezza: “Vado zigzagando cieco alla stella polare”, recita l’incipit. La Terra, così come la luna (fioca) così come le nevrotiche lucciole celesti immobili fisse sono lontanissime dalle immagini a cui la poesia tradizionale (Leopardi compreso) ci aveva abituato. Non invano del resto sono passate le avanguardie artistico-culturali del  primo Novecento.

Perfino il vento che soffia tra le dita diventa per chi scrive incomprensibile nei suoi movimenti (Equilibrio). L’essere umano appare in bilico tra “lo stare in equilibrio o […] essere pronto alla caduta".

Poesia di sensazioni, intrisa di MITO e di ansie esistenziali. È come se il MITO facesse da filtro nei confronti di qualsiasi implicanza o riferimento immediato al vissuto di chi scrive, preso com’è dalla certezza delle sue incertezze.
Il far capolino qua e là del tema dei ricordi, delle memorie, della capacità di dismemorare (Il giorno più lungo) non possono non farci pensare ad un che di autobiografico se pur sepolto dalla sedimentazione di un’inquietudine di base, perché di animo inquieto si tratta. E quel modo insolito di guardare alla natura e alla maternità attraverso la scelta di determinati miti (Althea) non nascondono forse una volontà di celarsi e di trovare protezione proprio negli studi matti e disperatissimi che sicuramente hanno accompagnato chi scrive (Mistero)? 

Devo ammettere che la lettura di questa silloge che ha dato Gianni Palumbo nel suo “Giano bifronte” mi ha illuminato nello  scrivere questa seconda parte (la prima casualmente si concludeva nel suo stesso modo: con la chiusa dell’ultima lirica :”Mi rispose: per salvarti”), consentendomi di acquisire altri punti di vista nell’esegesi di questa multiforme poesia. Così come ho trovato conforto in ciò che il maestro Giorgio Barberi Squarotti aveva scritto per la prima edizione.

Il ricorrere di chi scrive al MITO o a poeti come D’Annunzio ed Evtushenko, nominandoli e chiamandoli in causa o attraverso riferimenti più o meno palesi, non fa che confermare la sua enciclopedica cultura. Il mio prolungato incedere nella lettura di questo testo mi ha fatto ritrovare appieno nei versi di Incroci: “Spesso svoltando l’angolo si sbatte /contro chi volta l’angolo e ci sbatte. /Il sole non illumina oltre i muri”.

Superomismo e “L’armi, qua l’armi, […] procomberò sol io” si avvicendano senza apparenti vie di uscita. Leggere e cercare di  capire fino a  trovare un bandolo  è diventata  per me una sfida e un mettermi in gioco continuamente. Sono arrivata alla conclusione che si può procedere fino alla fine anche spaziando attraverso diversi piani di lettura.
C’è chi si accontenta della superficie e c’è chi invece lascia che la poesia dischiuda sempre nuovi ed imprevedibili orizzonti.

Giulia Notarangelo

Biografia di Giulia Notarangelo, redattrice de La Vallisa
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