La sinfonia distonica in «Cinque movimenti e due congedi» di Gianni Antonio Palumbo

Si tratta di una plaquette edita per i tipi di Vitale (Sanremo 2022) quella con la quale Gianni Antonio Palumbo segna il suo recente ritorno alla poesia dopo Non alla luna, non al vento di Marzo (Schena Editore, 2006).
Una pubblicazione dal titolo Poesia in cinque movimenti e due congedi che non si fatica ad immaginare come una sorta di preludio, una ouverture, ad una prossima pubblicazione poetica monografica. E non a caso si utilizza il termine ouverture, quasi spontaneamente suggerito già dal titolo dell'opera. Perché l'impressione che lascia ad una prima lettura è quella di una sinfonia orchestrata consapevolmente secondo dettagli particolarissimi incastrati in una architettura che tende non solo a mostrare senza vergogna alcuna, ma quasi ad evidenziare col coraggio della sincerità, una profonda distonia messa in ordine "melodico" sul pentagramma della vita e della storia.

E vita e storia si intrecciano amaramente in una sorta di atto di dolore, di invito ad un forse possibile, forse necessario mea culpa collettivo già nel poemetto d'esordio Cantico del Controsamaritano dove l'orginale identificazione e ricollocazione della figura biblica sintetizza il Novecento rapportandolo ai percorsi della coscienza individuale senza i quali parrebbe impossibile collocare l'individuo all'interno del proprio tempo. Da lì comincia quel tempo: da lì è necessario cominciare a rifare i conti.


G. A. Palumbo, Poesia in cinque movimenti e due congedi, Vitale Edizioni, Sanremo 2022


Dove sono le donne di Auschwitz?
Dove le madri smistate a Bergen-Belsen?
Dov'è Ester dalle lunghe trecce nere?
E dove siamo noi che non morimmo
e siamo vivi a stento,
per la vergogna che coprì le nostre case?
E dove sono io,
l'italiano che salendo da Gerico a Gerusalemme
non si volse e passò oltre.


Così, in questa dilatazione temporale (dal punto di vista della riflessione e della elaborazione poetica) che si pone accanto ad una pari contrazione storica e sociale (dal punto di vista del sentimento e dello slancio "sacro") si sviluppa subito, ex abrupto, l'invito dell'autore a seguire un percorso che va dalle oggettive conoscenze storiche del secolo scorso (le vittime dell'olocausto), scendendo attraverso il «noi che non morimmo / e siamo vivi a stento», fino all'"io", perfino "italiano", che «non si volse e passò oltre».
Prosegue Palumbo in questo percorso "discendente" nella coscienza (storica e individuale, imprescindibilmente legate) fino a lanciare la prima nota "stonata", il primo accordo "allarmato" nella citazione vera e propria di un verso dell'inno nazista Marschieren im Geist in unseren Reien mit. Che guardacaso non è il verso di una lirica o il periodo di una prosa ma un vero e proprio canto. Ed è spietatamente associato ad una sorprendente prima persona plurale. 

Noi che gridammo
"Marschieren im Geist in unseren Reien mit"
Che violammo il fiore delle donne d'Abissinia.

Chiamatela desolazione questa morte
che abbiamo accarezzato giorno dopo giorno.
Chiamatelo sepolcro questo mare che si chiude
sulle vittime di noi controsamaritani.

Insomma, sembra dire, prendiamone una volta per tutte coscienza che il silenzio e il voltare lo sguardo dall'altra parte non è meno colpevole del delitto in sé. Fare i conti con se stessi sembra non poter prescindere dal fare i conti con una Storia con la quale, seppure non si è stati protagonisti, è impossibile rapportarsi senza una parte di responsabilità che è e resterà tale sino a che non si avrà il coraggio di passare attraverso quella Storia con tutto ciò che quel passaggio comporta. Una "battaglia" coraggiosa che non è affatto priva di armi: si è usato pocanzi il termine sacro che in quest'opera è fondamentale chiave di volta della postura poetica dell'autore. Un filtro prima necessario al cammino proposto da Palumbo e man mano sempre più indispensabile ad esaltare quella distonia qui ancora nascente e che nel corso dei cinque movimenti diventerà qualcosa di diverso.

Si notino intanto due dettagli di particolare fascino: uno "tecnico", con la ripresa, nel verso successivo a quello dell'inno nazista, di una ritmica che ne richiama l'andamento sebbene si tratti di due lingue differenti; l'altro - a conferma di quanto precedentemente accennato - a mo' di abile gioco temporale che di botto presenta di fronte a una storia oggettiva, conosciuta e assimilata (vuotamente, diremmo) attraverso i libri di scuola, una storia contemporanea che invece ci appartiene profondamente. Basta la sola citazione del mare come sepolcro a istituire un brutale quanto sincero trait d'union fra le onde che conducono all'Abissinia del secolo scorso e quelle che si richiudono sui barconi del nuovo millennio!
Il sottotesto pare evidente e successivamente si troverà confermato in altri versi della silloge: l'incapacità (che arriva fino alla disumanità) di affrontare le tragedie che inaugurano questo nuovo millennio hanno profonde radici nel dramma irrisolto del secolo scorso che tale è rimasto fino ad oggi perché mai affrontato a muso duro e viso scoperto tanto da riuscirsi a declinare ancora in mille casi e con mille sfumature diverse:

Chiamate barbarie il furore della razza
che proclama la purezza dell'impuro.

E allora il Poeta ricorre agli elementi della Natura come espressione di un "Assoluto" (ecco un primo accenno ad un'altra parola chiave dell'opera) al quale in qualche modo si chiede di supplire a una necessità ormai improrogabile ma più che derogabile nella costituzione di un perimetro di umanità nel quale l'uomo resti consapevolmente collocato in senso valoriale senza più essere capace di riuscirci da sé:

Vento, squassa il nostro passo
Che la memoria lenta già si spegne
Riportaci lontano a Fossoli o alla Bruma
Che il dolore di Primo sia anche il mio
Che la morte di Maida sia la morte del mio cuore
Come il naufragio di quegli umili
È la cancrena di quest'occidente marcio.

Mare, che dissolvi e scorri. 
rendici l'anima che non abbiamo,
dacci la vergogna della nostra indifferenza,
culla quel silenzio inerte
a lacerarci il cuore.

Ci sia concesso insomma, in qualche modo, di porre riparo ai guasti che abbiamo lasciato correre distogliendo lo sguardo (e ancora la prima plurale a campeggiare evidente) o che, altrimenti, qualcuno ci assolva. E il testo si trasforma in una preghiera tutt'altro che laica ma che percorre la rischiosa linea di confine del sacro - come si diceva sopra - senza "urtare" dogmi confessionali probabilmente inutili ma, d'altro canto, senza neppure incensarsi liturgicamente in culti vuoti e ripetitivi. Un salmo senza ritornello, se è il ritornello a caratterizzare il salmo ma pur sempre una preghiera, uno sguardo al cielo che traduce (ed è inevitabile) l'Assoluto in Dio (e mai il contrario), dove quest'ultimo è forse solo la traduzione più e prima che il contenuto. Che è e resta, per quello che ci pare, solo e soprattutto l'Uomo!

Prego e pregate Dio
che tutti possa e voglia assolvere.

Ma meritiamo poi l'assoluzione
noi che passammo accanto alla Morte
tante volte e che non siamo morti
neanche un giorno, neanche un poco?

Meritiamo poi l'assoluzione noi
che inginocchiati sugli altari
denunciammo il vicino celato in cantina
e accendemmo ceri ai santi
per la spoglia opima che ne ricavammo?
(...)

Solo pregate Dio
che tutti possa e voglia assolvere.

La distonia comincia ad acquisire un volume più deciso: un uomo che fatica a chiedere un'assoluzione, diremmo un homo deus che ormai ritiene quasi di essere in grado di assolversi da sé senza porsi il problema del merito (che qui invece viene "intonato" quasi gregorianamente) e un Dio che, capitalizzando la storia letteraria (e musicale, guardacaso) del Novecento, se non è morto, ha di certo abdicato se - come pare - viene meno la certezza del perdono del Dio è amore, al punto di dover sperare che voglia assolvere tutti. Ne è consapevole Palumbo se, uscendo dal Preludio sul quale ci siamo finora soffermati, subito dopo, nel primo movimento "selenitico" - dove torna l'"io" prestato a una figura femminile, una prostituta («E sono stata io stessa cane / sul ciglio delle vostre strade») - così canta:

E non c'è Dio
e non c'è uomo
che ci salvi.
Forse ci salva un volto
che affiora da un cantuccio in fondo al cuore.
Forse ci salverai tu
se solo saprai ricordare
che anche calpestato
un fiore
resta tale.

Un passaggio che, se da un lato sembra richiamare la chiusa del Preludio, dall'altro rinvigorisce nuovamente la distonia con il ricorso a un "io" e a un "tu", il primo fatto di accordi in minore che piangono l'essere un cane ai bordi della strade dove si vedono morire uomini e urlano la tragedia di un piacere rubato, comprato «che se non piace, / qualcuno altrove paga e muore / non come muore un uomo / (...) ma come muore un cane» e il secondo, al contrario, capace in pochissimi versi di alterare il colore delle note in una tenerezza dai toni pastello completamente contrapposta al precedente.

Si è insistito fin qui sul Preludio della raccolta e sui suoi primi movimenti in quanto quasi sintesi dei temi che si svilupperanno lungo tutto il corso delle liriche al punto che una di queste porta proprio il titolo di Distonia. Per Marja:

Per te, che sognavi cavalli e regine,
il mondo era un lontano specchio stonato.
Come una campana
che abbia suonato tardi il giorno.
E si ostina
a rintoccare
nel silenzio.

Laddove distonia non è ossimoro o contraddizione ma una voluta sollecitazione "avversiva", un'acredine percettiva, una rasposa spinta dell'anima a tuffarsi in quel percorso di dolore ma risolutivo (almeno sul piano della speranza); l'unico in grado di trasformare la distonia in sintonia e, attraverso l'anelito all'Assoluto, infine in sinfonia.
Leggendo quest'opera mi sono risuonate nelle orecchie alcune note di Wagner: non so dirne il perché ma scopro dopo che il musicista è tra i preferiti dell'autore. Ho percepito la profonda consapevolezza da parte di Gianni Palumbo di metter su una sinfonia, appunto, volutamente distonica: di volerla prima "stonare" per poi intonarla con tutti gli strumenti a disposizione. I fiati della fede che inseguono le percussioni della ragione; gli archi del sentimento che accompagnano i legni della lotta. E l'unico amalgama corale del coraggio di mostrare il petto perché ciò che è dentro venga fuori, sfrontato e discreto, esaltando a sua volta le distonie che di quell'anima sono contorno e colori.
L'accostamento, non già audace ma coraggioso, di temi e sentimenti anche di fede, slegati da riti e liturgie al punto da orchestrarne una propria, estremamente affascinante, che traduca e sintetizzi ciò che l'autore sa o pensa essere necessario hic et nunc, nel proprio tempo, nella propria dimensione, nel proprio e altrui essere umano.

Senza voler anticipare alcunché d'altro, nella profonda convinzione che già in apertura e nei primi movimenti siano sintetizzate le tracce attraverso cui si muoverà l'intera distonia-sinfonia, ci piace sottolineare una lirica che ci ha particolarmente colpito con il suo sapido profumo di assoluto già dai primi versi: «Luce è maternità / di un pensiero sbocciato di sera».
Si tratta della lirica che apre il secondo movimento Nido notturno dove la distonia assume un carattere differente, esaltata com'è da toni affatto opposti a quelli del precedente movimento. 

ALLA MIA AMICA LUCE

Luce è maternità
di un pensiero sbocciato di sera.
Quando il pensiero è malinconia
e l'immalinconirsi dolcezza.
Con un retino improvvisato,
Luce acciuffa
le mie tristi falene
e le coltiva come gigli.
E se piove
e s'innamora d'un chicco di riso,
a Luce ridono gli occhi
anche quando piange.

La magnifica costruzione di questa lirica, tanto giocata sull'ambivalenza della parola/nome Luce, resterebbe polisemicamente fluttuante almeno fino all'ultima strofa dove i verbi ridere e piangere aprono a un senso più ampio la lirica stessa, tutta permeata sul senso di quella Luce che è poi persona reale, amica speciale dell'autore. Si notino i versi «Luce acciuffa / le mie tristi falene / e le coltiva come gigli» che, posti nella parte centrale della lirica, segnano proprio il passaggio e il punto d'incontro fra i due diversi sensi della parola Luce; quella dell'inizio, nei versi di incipit già citati, e quella della fine nei versi di chiusa. 
In questo "secondo tempo" diventa disarmante la tenerezza, il senso del rifugio, dell'abbraccio sempre di tanto in tanto intervallato dal colpo potente e "stonato" che si pone in una posizione quasi ossimorica e perciò stesso accattivante, che sa rapire l'attenzione e il sentimento del lettore tirandolo dentro la propria creazione poetica che non è solo fine elaborazione letteraria. 

VISITAZIONE

Signore dagli occhi rossi,
se n'hai scagliato il malanno,
va' lontano.
Ché non ripulluli tristezza
tra queste litanie di studi e versi.
E forse io sarò felice.
Purché arrivi lei
a confondermi le carte
con bucaneve di dispetti.
A rubarmi i libri
e insegnarmi la domenica
fra le maglie disfatte
di un giorno di noia.

È così evidente il cambio di tono, di colore e di temperatura fra l'inizio e la fine di questa poesia, emblematica a suo modo, insieme alla precedente Luce e di quanto fin qui sottolineato, dell'intero movimento che l'autore mette in moto nella plaquette. C'è tanta nuda anima nei versi di questi Cinque movimenti e due congedi che, a modesto avviso di chi scrive, trovano una misura differente e più calibrata rispetto alla precedente raccolta dell'autore. Il filtro umano -se ci è concesso dirla in questo modo- che diventa arma e vessillo di una sincerità quasi prepotente, incassa e incornicia di alta dignità stili e stilemi che erano stati propri della produzione precedente e qui, declinati secondo una misura più meditata, si sfumano e si definiscono (a seconda della necessità) arrivando a piena maturazione.
Sarà probabilmente utile un discorso d'insieme rispetto alla produzione poetica complessiva di Gianni Antonio Palumbo ma questo è un altro discorso che probabilmente troverà maggiore giovamento dalla futura pubblicazione della silloge definitiva che crediamo non tarderà ad arrivare. Nel frattempo godersi questi Cinque movimenti e due congedi sarà un intenso momento di riflessione e godimento sulla e della Poesia.



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