Innalzare l'uomo al di là della morte, della vita e dell'oblio. Francesco Galasso legge «Carne e Sangue»
In un panorama di deboli afflati, di esilio della parola, corposa ed essenziale, troviamo in questa silloge una struttura eufonica, intesa come armonica e gradevole, un pensiero netto e non claudicante. La poesia come nicchia, rifugio, nella quale poter fermare la dissipazione del tempo.
C’è un sogno di resistenza e resilienza in Vito Davoli, una riserva d’acqua dolce, come àncora di salvezza rappresentata dai versi che scaturiscano da una fonte limpida e pura. La siccità degli impulsi emotivi e delle promesse d’amore non mina la tempra generosa dell’autore, già messa alla prova dalla vita agra e meschina. In lui c’è il desiderio d’innalzare l’uomo al di là di ogni ragione contraria, al di là della morte, della vita e dell’oblio. Un cercare in alto verso vette di bellezza proprio dei poeti della classicità, basti pensare ad Orazio.
Il libro ha una veste aristocratica ed il contenuto si presenta in modo uniforme con dei campi semantici che si susseguono in ogni lirica senza sbavature o narrazioni fuori controllo. Un filo rosso segue lungo tutta la scrittura, un dialogo, a volte, con se stesso che non lascia spazio alle banalità. Parole nuove quelle del poeta, un profumo d’erbe primaverili, un accostamento di lemmi in modo inusuale.
Una lettura interessante che lascia incantati i lettori, amanti della poesia, che non rimarranno certo indifferenti alle immagini, alla musicalità e alla forza di un afflato ricco di sentimenti come nella poesia “Rosso”.
ROSSO
Le case, rosse, bruciano confuse
sotto quest’ora crepitante
che ridà sangue ai muri.
Io non distinguo il mare del mattino
se il sole lo tiene con un braccio
pronto a rifarsi il trucco
né il cielo malinconico sopra il mio Sud
se piano l’abbandona.
Chissà perché i poeti amano il tramonto!
Forse per me è il belletto
prima della prima,
attesa
speranza sanguigna
che lo spettacolo abbia inizio
o forse solo del giorno dopo
del giorno nuovo.
«… Io non distinguo il mare del mattino / se il sole lo tiene con un braccio / pronto a rifarsi il trucco…» ed ancora «… Chissà perché i poeti amano il tramonto! / Forse per me è il belletto / prima della prima, / attesa / speranza sanguigna /… / del giorno nuovo». C’è sempre tanta speranza in questo nostro sud ed i versi di Vito Davoli sembrano richiamare “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati: quell’aspettare, sempre di vedetta, dietro i bastioni, un nemico che non verrà mai e nel frattempo il tramonto lecca le nostre ferite.
L’autore di Carne e sangue ci coinvolge in un’atmosfera magica, fantastica, ricca di una simbologia fuori dal comune senza il bisogno di scendere in approfondimenti e spiegazioni. Il suo è un linguaggio suggestivo, a volte pittorico, e rispecchia grandezza morale. Si vorrebbe tornare indietro… «Deformo lo specchio…» dice l’autore nella poesia In bilico dove si muove come un equilibrista con i piedi poggiati di taglio su una corda tesa. Si ha nostalgia dell’animo fanciullo, quello che rideva e scherzava, senza pesi sulle spalle, in spazi aperti, senza un continuo alert.
C’è un impegno civile nel pensiero dell’autore, non è solo un guardarsi dentro per una conoscenza intimistica, ma uno sguardo all’esterno, proiettato verso desideri di beltà, alla ricerca di una umanità che bisogna trovare nonostante tutto. Lui non volta le spalle di fronte ai più deboli, ne fa punti di forza, speranza e gioia di vivere senza commiserazione o pietas. Il suo poetare è accoglienza, spirito costruttivo, un traboccare di sogni, mani grandi per piccole necessità come un pezzo di pane, volersi bene ed una coscienza netta. Ed è così che avviene nella poesia “Vlora” che io definirei il suo manifesto poetico.
«… Vlora bon-bon traboccante di crema… / … Vlora che sogni il sole ad occidente…» è l’apoteosi delle immagini, la goccia che buca la roccia dell’indifferenza, il ritmo incalzante che si fa musica. Un episodio, quello della prima nave albanese sbarcata in Italia (Bari) col suo carico di disperati, che rappresenta l’incipit di una nuova era, quella dell’immigrazione di massa, e l’autore in questa poesia ne ha sottolineato l’importanza, profetizzando un futuro, di cui - e che da lì in poi - tutti noi dovemmo farci carico senza risparmio alcuno. Questa è la potenza della poesia che in pochi versi rispecchia tutto un mondo: storie, vite, famiglie, aspirazioni, delusioni, costumi, tradizioni, lacrime, ferite, donne incinta, spruzzi di mare, grida, vestiti consunti, facce rigate dal sole e soprattutto riscatto.
Ogni poesia di questa silloge meriterebbe un capitolo a parte. Da qui nasce l’esigenza e la consapevolezza che non bisogna mai fermarsi all’apparenza, all’esteriorità, ma scavare, se necessario a “mani nude”, aprire varchi fra parole, lettere, vocali e consonanti, in modo tale da scoprire e scomporre la materia poesia in atomi e particelle.
«A me piace pensare / che Amore sia un costrutto privativo / che nella lingua nega / costumi e abitudini». Pochi versi in questa poesia del poeta dal titolo A-more, ma così densi che trasportano il lettore in una pareidolia di pensieri, un dedalo dalle interpretazioni più variegate, ma sempre fedeli alla poetica dell’autore. Un amore sviscerato quello di Vito Davoli che obbedisce alle legge dell’amore: donare senza pretendere nulla in cambio e rinunciare a qualcosa con la felicità nel cuore. Scriveva Sant’Agostino: «In interiore homine habitat veritas». La verità abita nell’intimo dell’uomo. Ogni ricerca di se stesso, apre alla consapevolezza della relazione, quel contatto con il prossimo che ci permette di crescere e costruire ponti di amicizia e solidarietà. L’anima profonda del poeta detta il tempo, riconduce orgogliosamente alla natura dell’uomo.
Siamo fatti per amare.
Francesco Galasso