Una storia in prima persona che coinvolge l'io di ciascun lettore: Giusy Carminucci legge «Carne e Sangue»

«La poesia è poesia quando porta con sé un segreto» (Giuseppe Ungaretti).
E, sicuramente, la poesia di Vito Davoli ha in serbo più di un segreto. Certo, il suo mistero è una delle chiavi di lettura dell’intera silloge. Ed è il mistero che affascina e chiede un resoconto.
Il contesto nel quale si sviluppa questa interessante pubblicazione di Vito Davoli parte dal presente, offre uno sguardo al passato e si proietta verso il futuro. È una storia in prima persona, che, però, arriva a coinvolgere l’io di ciascun lettore.
La poesia di Davoli è uno specchio d’acqua: quintessenza della sua vita, taglio policromo delle sue versatili scelte. A partire dall’argomento e dal tono psicologico, Davoli fa dipendere l’espressione letteraria e la fa propria e la rende artisticamente importante.
L’espressione individuale assume rilievo nell’analisi prospettica del sé e la storia dell’Autore emerge nei versi, permeata dalla considerazione del proprio spazio storico, attraversato da indefinibili traiettorie emozionali, pur sempre linee coerenti con il gusto culturale in cui la storia dell’Artista e la storia dell’arte si intrecciano. Davoli vive nella tradizione, anche quando ad essa si ribella, innovandola come nei versi «Il mio tempo è liturgia di segmenti/ che serpeggiano eccitati/ dai valori e dall’arsura». Così come quando si lascia guidare dalla passione, che avviluppa interi territori emozionali e stili. Nelle sue parole estetica e stilistica si implicano e si presuppongono a vicenda, e metrica, rima e figure retoriche e linguistiche assumono una forma compiuta con tratti espressivi caratteristici e caratterizzanti del Davoli. Come fa, ad esempio ne La trebbiatrice, dove paragona la sua pelle alla terra e i sorrisi di lei alle sferze di una trebbiatrice. 

LA TREBBIATRICE

Sommessamente mi dici di sorridere.
Di più non chiedo.

Accanto a quel sorriso
e alla triste dolcezza che dici di vedere
nei miei occhi,
accanto a questi segni
altri ne porterò
come una terra dura
sotto testarde sferze di una trebbiatrice.

Nulla mi corre addosso inutilmente
in questa imperdonabile colpa
di voler vivere.


LA TRILLADORA 
 
Discretamente me invitas a sonreir. 
Más ya no pido. 
 
Cerca de esa sonrisa
y de la triste dulzura que dices ver
en mis ojos,
cerca de estos signos
otros voy a traer
como una tierra dura
bajo tercos látigos de una trilladora. 
 
Nada me corre encima inútilmente
en esta imperdonable culpa
de querer vivir.  
 
Traduzione allo spagnolo edita su TIBERIADES, Red iberoamericana de criticos literarios cristianos del 26 maggio 2022;  


O quando esprime il suo essere un «indomito e scalpitante cavallo che lotta contro la sella», tra «onde di sfarzosa carnalità». 
Entro la sfera dell’eloquenza, a volte entro gli schemi della grammatica storica, con origine in formule magiche, troviamo un senso al tono generale delle poesie e un senso alla stessa filosofia, alla poetica dell’Autore. Ad essere attenti, non c’è un breve testo ermetico o un testo/poema prediletti, come sottolinea invece Giancane nella Presentazione. L’autore cerca, attraverso una sintesi di sensibilità e di pensiero, di seguire un processo di lettura, di contemplazione e di erudizione: è questo il nucleo fondante. È questa la cifra del suo stile ed egli riesce a perdersi e a godere, nella passione non vista come annullamento di sé, ma come rinascita e resurrezione che, al contempo, è integrazione ad altro sé. Il perdersi non è un agire senza la consapevolezza di ritrovarsi, ma un essere con in mano gli strumenti per scoprire un nuovo orientamento. Come esprime nei versi «È l’occhio che diventa viso/ Corpo uomo/ Strada città e pianeta/ lì dove cambia anche la geografia/ dell’essere e del tempo, / dell’incertezza e della conoscenza». Non annullandosi, ma, come lo scienziato che si abbandona alla meraviglia di una ricerca nata inaspettatamente e che lo porta ad una nuova fase di quel progresso, è padre e madre di una nuova invenzione, alla scoperta di una nuova parte di sé o, addirittura, di un nuovo sé, come, in modo dolce ed incantevole esprime ne L’Eco, che dedica ai suoi ex-alunni, agli studenti, ai giovani. Il Davoli, come un bambino che scopre un mondo, gioca proprio come uno scienziato della parola e del pensiero, affondando, come dice Giancane nella Presentazione della silloge, in una conversazione intima che riesce a sfociare in uno spaccato di riflessione sociale.

V. DAVOLI, Carne e sangue, Tabula fati, Chieti 2022
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Ogni poesia che fa vivere Carne e sangue è una profonda ricerca di significato, come accade per le opere di Escher. Prendiamo Bagliori, ad esempio, lì dove dice «(…) il filo di Penelope e la tela di Arianna» è una contraddizione. Già, è proprio una contraddizione voluta che, però, esprime, nello specifico, «quel buco che in un attimo si espande sotto l’acqua»: un buco sotto l’acqua…una contraddizione…
È proprio questo che le parole del poeta danno: il senso ad una realtà contraddittoria che si delinea davanti ad una serie di possibilità. È una realtà che viene ritagliata a misura, ma in cui ognuno può, percorrendo le diverse opportunità di pensiero, offerte dal Davoli come probabili soluzioni, trovare la propria realtà, proprio come accade guardando un quadro di Escher.
Contraddittoria, dicevo, ma al tempo stesso meravigliosa è Carne e sangue: una lirica, un poema, uno scenario che lascia emergere in una passione vissuta, in una passione sentita, in una passione amata, i protagonisti costretti a doversi perdere. La storia di amore fatto di “Carne e sangue” coinvolge in prima persona, perché è il poeta che si narra in un crocevia di versi. E ciascun lettore si ritrova «nell’agro dolce del sapore dell’attesa ad ogni suo ritorno».
È nella passione il significato dell’esistenza di Carne e sangue: racchiuso ancora nei versi «la testa è dura di rimpianti e voglie ed io la voglio ancora». È la forza indistruttibile del legame, che è poi la natura stessa del connubio eterno con la poesia, e che ritroviamo dolce e prepotente nei versi: «uniti da bave di memoria come liane selvagge di giungla». Dove esterna bave di memoria, effluvi di un corpo nell’altro; proprio come il fluido possesso che di ciascuno fa la poesia. Immagini o versi che fanno parte già dei ricordi, ma al tempo stesso inducono a spostamenti selvaggi, istintuali, primordiali, in una giungla fatta di relazioni e di terre inesplorate; terre ricche di vita, ma al tempo stesso pericolose. Dove le bave di memoria sono vere e proprie ancore di salvezza per chi ama con trasporto. È affidato al tempo e allo spazio, al vuoto e alla libertà il fantasma di una passione che è gioco di «animale bellezza e cattiveria»: è un dramma che imprigiona un amore passionale, fantasma che avvolge l’anima.
Mentre il tempo (dirà il Poeta in Carboni ardenti) «…è liturgia di segmenti/ che serpeggiano eccitati/ dai calori e dall’arsura».
Perché l’A- more è «un costrutto privativo/ che nella lingua nega/ costumi e abitudini», dirà il Nostro.

E poi, con un volo pindarico, rechiamoci in punta di piedi, ma con lo sguardo curioso di un viaggiatore bambino, ad abbracciare la capacità lirico/descrittiva del Davoli. In Sbirciando egli offre una fotografia precisa e dettagliata di una città del Sud che «si ridesta all’alba».
O in Cantami Sarajevo affida ai suoi versi la sua visione di un «destino cinico/ armato fino ai denti» dove «il sangue colora le macerie» e dove «in un purgatorio di ambizioni/ (…)/ hanno strappato i veli / alla natura dell’immaginazione».
La silloge Carne e sangue magistralmente divisa nelle sue tre sezioni è, per queste e per mille altre ragioni, la storia di una persona, che diventa l’abbandono richiesto, non voluto, di una realtà misteriosa che gioca a nascondino fra due lune e che stravolge la penombra di un sentimento, per riconoscere nell’altro il capitano della propria imbarcazione.
E mentre percorre «ogni strada già fatta, privo di sensi» la poesia di Vito Davoli possiede già lo stesso bagliore dell’eterno.

Giusy Carminucci

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