𝙉𝙤𝙩𝙩𝙞𝙡𝙪𝙘𝙚𝙣𝙩𝙚, la nuova silloge di Marta Maria Camporale

Va subito detto che è, questa Nottilucente, il passo deciso verso la maturità poetica di Marta Maria Camporeale. E, se letto a seguito della sua opera prima L’Ora Blu, non si potrà non rendersi conto dell’evidente sviluppo artistico nel percorso lirico della Nostra. Se, come giustamente scrive il prof. D’Agnano, «Il discorso poetico ha (…) altri ingredienti ed altre qualità che lo distinguono: ha ritmo, fluidità, leggerezza, grazia, musicalità, armonia che scaturiscono dalla misura e dai prodigi creativi dei tanti meccanismi tecnici che il poeta conosce», allora è vero che Nottilucente testimonia chiaramente quel percorso di conoscenza al quale l’autrice si è dedicata negli anni che separano l’opera prima da questa nuova pubblicazione.

M. M. CAMPOREALE, Nottilucente, EdiRespa, Molfetta 2023
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Sceglie così di costruire la sua poetica attorno ad alcuni capisaldi che paiono evidenti tanto dal punto di vista tecnico e formale quanto dalle scelte contenutistiche che traduce in liriche intense giocate tutte su un’osservazione “biunivoca”, che offre e restituisce un percorso che, più che lineare, definirei orizzontale in quanto perfettamente sovrapponibile alla curva dell’orizzonte al quale Marta Maria guarda e nel quale, come vedremo, scandaglia e cerca, e dal quale si aspetta – o si aspetta di trovare – risposte. Intanto la misura: fra le liriche di Nottilucente, quasi mai si supera la lunghezza dei venti versi. Una evidente concentrazione che deve necessariamente tradurre altrove l’afflato lirico e le sensibilità di cui ciascuna di queste poesie è particolarmente pregna e lo fa nella parola; nella scelta e nell’accostamento delle singole parole e in un costante lavorio su di esse.

Senza voler troppo soffermarsi su dettagli tecnici  che pure altro non sono che quei “prodigi creativi” che consentono alla scrittura – per chiudere il pensiero del prof. D’Agnano – di «suscitare incanto, meraviglia, stupore, emozione, batticuore, trasalimenti dell’anima», va comunque sottolineato come numerose siano le figure retoriche finemente cesellate che, accanto alle strutture (madrigali, ottave, sonetti scomposti, brevi poemetti ed elegie), compartecipano a tessere una finissima tela, compatta e variopinta dove quasi non compare una sola poesia in cui non sia possibile identificare una sfumatura di ricercatezza nella scelta di lemmi ed espressioni rare o talvolta perfino desuete. Smagare, lùcere, cruore, fogolar, incrodata, aprica, sbarbica, frombola, prilla, solo per citarne alcune; né serve elencarle tutte, una per una, talmente evidente risulta quel gusto linguistico. Il quale oscilla fra le tentazioni dell’ermetismo e la necessità del recupero di un significante che meglio racchiuda e sintetizzi il senso profondo della parola e la sua sacralità ermeneutica perché «ogni parola fa sempre all’amore» (Bevagna) in quel costante lavorio che rende «il poeta artigiano», come la poetessa stessa esplicita, appunto, in Parola.

Piccolo cembalo, la bocca 
snocciola tirabaci di china
e sul foglio grondano
ricami d'alfabeto corsivo.
Sono tele, fresche di stampa,
da sistemare in libreria. 
 
Lettere nere e bianchi spazi,
imitabili segni d'integrazione! 
 
Acqua e sorgente sei:
cella di favo
del poeta artigiano,
sgorbia da romanziere,
argot della mano. 
 
Sciacqui i panni in Arno
e col sole di Napoli l'asciughi! 
 
Oh condurre tu sai coi gesti umani
e, dal desiderio, nuda sul letto cadi.

Metricamente il verso libero non rinuncia ai tradizionali endecasillabi e a costruzioni ritmiche diverse, certo solo accennate, che tuttavia compartecipano ad una ricerca di musicalità che affianca al ritmo le sonorità delle rime e delle assonanze tutte funzionali ad un gioco “sensoriale” ricco di ingredienti ed elementi che ne acuiscono la evidente polisemia. Fragile tempo è interamente composta di soli endecasillabi, a parte il primo, e mi piace sottolineare, a titolo esemplificativo, pure l’accostamento che segue: «un nido che tiene accucciate / rondinèlle come perle d’estate»: novenario ed endecasillabo dove il secondo parte con una accentazione in terza che accelera e prolunga il ritmo del verso quasi a voler scandire e disegnare il percorso irregolare delle rondini stesse.
Ciò che però mi pare più meritevole di attenzione è il fatto che ogni locus, qualunque esso sia in questa silloge, è tappa dell’anima e vestizione di storia, quasi alla ricerca del proprio spazio-tempo in uno spasmodico desiderio di collocarlo in un segmento di storia per consentire, appunto, al proprio spazio e al proprio tempo di trovare una connessione, direi universale, un continuum con quanto c’è già stato perché valga la pena salvaguardarlo in nome di ciò che ci sarà. 

Nel luoghi della Camporeale si fondono e si slargano le dimensioni dell’anima fino a idealizzare gli elementi visibili e la concretezza sensoriale in mappe emozionali nelle quali la poetessa s’immerge temeraria e con convinzione, direi con il piacere e la necessità della costituzione di un proprio perimetro umano che propone come possibile al lettore. Quei luoghi diventano così essi stessi depositari delle preziosità del tempo dove passato e, in prospettiva, futuro s’incontrano nel liquido amniotico di una placenta che l’autrice percepisce come un presente evanescente nel quale il tempo, a furia di essere misurato, finisce per negare se stesso e per diventare antitempo quasi sfuocato nell’emozione di un paradigma che tale si fa nel momento in cui viene osservato: «Ora sono il passato / e il futuro remoto» (Alba orbitale).
Una sorta di “guida turistica” – mi si passi l’espressione… e non a caso una delle sezioni della silloge, la prima, è titolata proprio Brusio di luoghi – dove il “tour operator” dell’anima disegna percorsi interiori e suggerisce tappe di crescita umana che non possono prescindere dal proprio posto nella storia. Tant’è che costante è lo sforzo di fusione fra il materiale e l’immateriale, quasi che fossero un tutt’uno e forse l’unicum capace di restituire all’esistenza stessa un senso che va e vale al di là di entrambi. E così che si riesce ad arrivare anche oltre la semplice personificazione e, al di là di ogni singola figura retorica, in una sorta di sovrapposizione sensoriale, si confonde e si mescola consapevolmente l’attimo e il punto in cui  «in versi d’amore ho vestito il paese» (Andreis e Alcheda) o che «Farfugliano comari fontanelle» (Rasiglia) o le gonne diventano di quercia in Lucania o i passi si fanno «croccanti d’erba» in Sei Carri o, ancora, «quei drammi interiori» divengono «bollenti come caldarroste» (Burattini) in quella varietà sensoriale che contribuisce tutta e per intero a tirare il lettore dentro il cammino dell’autrice.

Vale la pena sottolineare alcune splendide immagini che, al di là della ricercatezza linguistica, brillano per l’originalità espressiva nell’accostamento di termini che aprono particolarissimi orizzonti di senso svelando prepotentemente i modi in cui la poetessa guarda attorno a sé, tanto in senso spaziale quanto temporale. Così «Il fiato del fumo s’arriccia al fuoco» (da Papaveri ad Agosto); così le mucche gravide ricordano piuttosto immagini di donna, quasi in una sorta di sacrale rispetto o di nobile assunzione, se riposano non più su manti d’erba ma su «verdi piumaggi» e si arriva sul finale della prima sezione già citata, perfino all’identificazione della poetessa stessa con il faro di Molfetta nell’omonima splendida poesia nella quale – scrive la poetessa – «Disfo le maglie del buio». Ecco, è lì che Marta Maria nasconde anche il senso della poesia, del suo scrivere:  farsi spazio, a furia di versi e parole, fra le “maglie del buio” nella direzione di un qualche barlume che riveli o anche solo accenni al senso stesso dell’esistenza. Quel percorso identificativo sarà una costante lungo tutta l’opera: si vedano le numerose volte in cui viene utilizzata la prima persona singolare del verbo essere: solo per citare qualche esempio, fino alla fine della silloge: «ora son Rosa» (Il sacco di Molfetta), «e poi sono over, overthinking» (Overthinking), «Sono il faro di Molfetta».

Eppure non è solo questione di parola. I livelli in cui si intersecano significati e significanti nell’elaborazione lirica della Camporeale sono molteplici, variegati e, soprattutto, strutturati in un’architettura di continui richiami che vanno dalle assonanze, dalle rime – interne e non solo – ai “prestiti espressivi” e formulari che arricchiscono in modo pieno e rotondo il senso prima di ciascuna lirica e poi, come in un puzzle, dell’opera tutta. Evidentemente, come si diceva all’inizio, ben matura rispetto alla precedente pubblicazione: scompaiono alcune asperità e talune ingenuità che pur non compromettevano quello che D’Agnano sottolineava essere comunque un “libro-rivelazione” ma il labor limæ qui esercitato regala frutti di particolare pregnanza. Si pensi – in virtù anche di quanto detto sopra – a quanto può evocativamente essere racchiuso all’interno dei soli due versi di chiusa della poesia Aprile che così recitano: «La poesia, fatta carne, / cade sul palcoscenico». In due soli versi si aprono possibilità ermeneutiche particolarmente intense se, attraverso quell’espressione «fatta carne», messa a chiusa del verso e congiunta all’apertura del successivo «cade», evoca atmosfere evangeliche e direi perfino cristologiche legate, però, alla poesia e al locus nel quale si consuma la sua via crucis: il palcoscenico! Senza considerare la struttura chiastica generata dal legame fra poesia e palcoscenico (larga) e fatta carne e cade (stretta). 

Eppure sarebbe limitativo e anche ingiusto pensare ad un mero soliloquio che così potrebbe apparire un po’ sterile e quasi fine a se stesso. Compare, invece, nel corso dell’opera anche un ‘tu’ che porta l’osservazione precedente, oggettivizzata dall’identificazione della poetessa coi luoghi, a divenire dialogo e necessità comunicativa già nel titolo della sezione Immaginarti per sempre. Immaginarti, appunto. Sezione nella quale si legge, nella poesia eponima Nottilucente, «Pare il falò mi tocchi»: quasi espressione di ritorno, risposta all’identificazione che diventa dialogo e restituisce un’azione, un’atto comunicativo di reciprocità, forse più desiderata che percepita, ma che resta un punto di fascino alto e suggestivo nella chiusa ideale di un cerchio lirico tutto appartenente all’opera. E alla poesia. Quella poesia che torna alle personificazioni e sancisce, in definitiva, un dialogo col tutto, un continuo e pervicace tentativo di comunicazione con tutto ciò da cui si attendono e a cui si richiedono risposte, nonostante i timori degli esiti, nonostante la contezza di una possibile sconfitta nel silenzio: si chiama ignoto. E si affronta con coraggio, come nell’omonima splendida lirica: «Coraggio sei tu, ignoto. / Vinci umano e materiale. // Lo sgomento vacilla / e, madido di pietà, affonda. // Ma ricomincio domani / ad avere paura ancora» (Coraggio).

Marta Maria Camporeale

Quadri e quadretti, dunque, (e la seconda non è una diminutio quanto un vezzeggiativo di tenerezza che nasce dai dipinti in punta di penna di istantanee suggestive) che tendono continuamente a riflettere la persona e il suo sentire, a farsi allegoria della percezione dei dettagli che costituiscono la ricerca del senso delle cose, del tempo e dell’esistenza, come nella più consolidata tradizione lirica italiana nel lungo percorso dei secoli che vanno fino al tardo Ottocento (e anche oltre, fino anche al primo Novecento) e dalla quale la poetessa non vuole affrancarsi ma si cimenta in quel percorso a cui vuole conferire i colori, le sfumature e le percezioni anche del suo essere donna: è al femminile che è declinata tutta Nottilucente. E ancor più si respira quella sensibilità femminile fatta di dolcezza e durezza, morbidezza e spigolosità, fragilità e orgoglio, quando si legge la splendida Volti di donna dove s’intrecciano e convivono, come nell’oggetto del canto, la «fragile preda delle onde» con «l’amore che nasce nei capelli»; la «bella ancòra schiena di seta» con l’anima che «rugge (…) il respiro del ventre». 
O anche quando si attraversa la più classica delle poesie, quella d’amore: «Noi due amanti al tramonto. / Noi due l’amore e l’opposto. // (…) Se sospiro dubbi m’accechi. // Cerca aiuto un cuore confuso. / Stride l’Alcione sul mare in burrasca» (da Lasciarsi) oppure «Riavvolgere il nastro vorrei. / Serve linfa a questo amore» (da Pettirosso).

Ancora: «Sulle gote ho il brivido rosso / d’una pudica vampa d'agosto» è consapevole omaggio o richiamo a una lunga tradizione poetica femminile della sua città, del suo territorio – al quale la poetessa è particolarmente legata – che va da Ada de Judicibus Lisena (penso anche a «tele azzurrine intesso») indietro fino a Stella Poli, (aggiungerei dalla Scardigno a Rosa Picca, vedi Il sacco di Molfetta) autrici alle quali Marta Maria ha dedicato tempo e studi intensi e a cui forse si deve anche quella matrice ideale e idealizzata di un mondo andato, semplice, un universo contadino del passato che lascia probabilmente zoppo il tentativo temporale di uno slargo al futuro quando quest’ultimo assume i connotati di una modernità un po’ forzata, volgare in quanto tale – perché tale è – e che pertanto difficilmente trova posto in un contesto così liricamente connotato. E il “femminile” è il colore e la temperatura di una sensibilità che pervade, tutt’altro che casualmente o naturalmente, l’intera opera. Ed è quello il filtro che setaccia qualunque altra espressione di intimità umana, anche al di là delle note di genere, quando audacemente e teneramente la poetessa denuda tutta se stessa, le proprie paure e le proprie percezioni fino a dichiarare in modo commovente: «E l'inferiorità cancellare: / essere più in terra d'una foglia se cade» (Insetto). Ma a cui conviene accostare in controcanto la reazione d’orgoglio che traduce in pungente ironia ed elegante critica una certa rabbia e un deciso desiderio di rivendicare un sacrosanto diritto nell’elaborazione della lirica Casalinga dove «col sauté sfuma l’ultimo cliché».
E aggiungerei: touché!

M. M. CAMPOREALE, L'Ora Blu, Fos Edizioni 2018
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