𝘓’𝘢𝘮𝘰𝘳𝘦 𝘤𝘢𝘱𝘰𝘷𝘰𝘭𝘵𝘰 di PATRIZIA AMALFI. Quell’istante che non è ancora scelta.
Per essere una opera prima in poesia,
questo Amore capovolto "tradisce" da subito una
padronanza di linguaggio che è caratteristica e veicolo fondamentale
nell'architettura semantica che pare essere un punto nodale nelle intenzioni
dell'autrice. L'esperienza letteraria di Patrizia Amalfi, tanto come insegnante
quanto come scrittrice, consente che si stagli ben distinta, da subito, una
chiarezza espositiva che non è affatto semplicità lessicale quanto abile gioco
lirico che indovina l'intenzionalità e l'esecuzione della "cattura"
del lettore di poesia sin dai primi versi. Già in Questa notte, poesia che apre la raccolta, si
intravedono alcuni elementi significativi che segnano evidentemente tanto i
paradigmi di riferimento della poetessa quanto la sua postura e il metodo di
utilizzo. Nel corso dell’intera silloge, infatti, si ritrovano espressioni
formulari mutuate da contesti diversi: quello biblico e liturgico, per esempio,
in «caduta dall’alto dei cieli», «atto di dolore», «oro
e mirra»; forse per fede e forse anche in senso ironico se non critico
giacché «non bastano degli angeli i cori» o il più
esplicito «silenzio di Dio» al quale però si rivolge
direttamente nella tenera preghiera nella quale Lo sfida con un invito: «dimostrami
d’essere il più forte / e non chiedermi nulla in cambio». Così come
s’intravedono riferimenti ai classici, Catullo in primis, se
si parla d'amore, nei «baci a mille e mille» o perfino
l'armamentario verbale dei giochi dei bambini «uno due tre quattro
cinque / chi vedo vedo», fino ad arrivare ai contemporanei,
immancabili Montale e Merini; inclusi poeti a lei coevi, anche questi ben
evidenti.
Eppure la forza vitale di questa poiesis sembra
risiedere tutta o in gran parte nella intrinseca musicalità di un verso (non
saranno evidentemente casuali titoli quali Ultimo tango o Ti
darò alla musica, tanto per citarne un paio) che si tende e si raccoglie
scandendo e mantenendo un ritmo che contribuisce con decisione ad accompagnare
anche la sola lettura "mentale": un martellante tam-tam che sa
mettere gli accenti giusti su momenti di certo significato a seconda di quanto,
più o meno intensamente, il significante ne voglia accentuare o smorzare l'intensità.
Questi possono esserne un esempio: «È il giorno della terra / del cielo
e d’ ogni ombra / dei rivoli di sangue perduti / di anime belle a passi di
danza / sul filo del tempo che s’incrina si ferma e s’annoda» o ancora «Eppure
/ da lontano / un vento insolente / solleva il velo dal petto / a mostrare i
miei occhi di pietra / impigliati ai rovi del passato». Qui,
sviluppando dinamicamente le processioni del tempo sul piano contenutistico, il
verso s'avviluppa e si snoda passando da brevissimo a lunghissimo senza
compromettere affatto il risultato, al contrario, esaltandolo. E questo
processo lo si ritrova in numerosi luoghi dell'Amore capovolto.
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Avevo già avuto modo di leggere Patrizia
Amalfi in occasione di un concorso letterario. Fu subito interessante la densità
della poesia Sono di pietra (qui inclusa a pag.55) nella quale mi
era parso si concentrassero e si intrecciassero più temi che ho ritrovato qui
elaborati e approfonditi lungo tutta la raccolta. Dalla appena citata
musicalità all'utilizzo variante del metro, dal ricorso al mito sia esso
classico o biblico (la Gorgone, il mito di Orfeo o della moglie di Lot) alla
sapiente scelta di verbi e parole fino alla costituzione di magnifiche
immagini, bagliori illuminanti che si stagliano fra il senso e il non-senso,
citando le parole della stessa poetessa.
Sebbene talvolta (è bene dire raramente) il linguaggio incespichi nella tentazione, assecondata, di un malconsiderato classicismo o lirismo che di certo non può più esprimersi in parole tronche a beneficio solo del ritmo (è il caso, per esempio, di inventar, contrastar [p.18], raccoglier [p.27], abbracciar [p.50], rievocar [p.74]), è pur vero che talune immagini, a volte intense e audaci, altre originali e acute, ristabiliscono un equilibrio lirico che non lascia nulla sul campo in fatto di bellezza e carica emotiva: «Tempo estraneo a inghiottirmi nel buio / fin dentro i sogni di vetro, / che le prime luci mi strappano dai denti». Ed è splendida la chiusa della stessa poesia
quando, riacquisita la lingua del reale e del vissuto, quasi paradossalmente ne
vengono fuori immagini sognanti di particolare fascino: «Una goccia di
sangue migra dalle labbra al vento / mi sembra brina / e m’inchino allo stupore
del suo fiore». L'intera raccolta è costellata da queste intuizioni
immaginifiche ricche e dense di significato («parlo alla polvere del mio
camminare») che sembrano essere state in grado di liberarsi dalle punte più
aspre e oscure di un ermetismo di maniera per essere restituite
all'architettura più sincera nella quale la poetessa stringe i bulloni del
sentimento e impalca le tavole della riflessione.
Resta comunque l'amore il nucleo
infuocato della raccolta, che si rapporta al tempo del vissuto tanto quanto del
vivibile declinandoli in colori e sfumature didascaliche che rivengono dal
calore dei ricordi nel passato e dal fresco – talvolta gelo – delle speranze o
delle consapevolezze nel futuro. Questo corollario consente uno sguardo
consapevole sul presente e sulla difficoltà dell'acquisizione dello stesso
nella "misurazione" di un tempo che non è mai sufficiente a
contenerlo. Il senso del tempo accompagna "a braccetto" l'amore; il
"vecchio" amore che si libera di petali, tramonti e rugiade fini a se
stessi e sa tentare uno sforzo di apparentamento a semantiche diverse. Come
nella poesia eponima L'amore capovolto, dove perfino «non
m’importa essere» perché «Della parola pace conosco a mala
pena il tormento». Amore, quindi, dilatato e coniugato all'altro,
certo, quello di Noi due (splendida l'immagine del «riempire
di domani i miei dubbi»), ma anche quello sintetizzato come rapporto con
ogni sfumatura possibile di ciò che, in un modo o nell'altro, entra in contatto
e agisce su chi osserva, sul poeta, sulla donna. Ed è forse qui il discrimine
fra la prima (D’amore e d’assenza) e la seconda sezione (Di stagioni
e d’altri passaggi), lì dove il 'noi' che fa continuo riferimento a un
'io' verso un 'tu', cede il passo a un 'noi' assoluto dove
l'io è parte di un tutto che col tempo trascorre e percorre un'osservazione e
una riflessione la quale, rispetto al tutto, paga il prezzo della
consapevolezza di una condanna: la finitezza dell'io rispetto a ciò che gli sta
prima e dopo. E così che trovano posto anche le dediche più diverse: dall'amico
scomparso alla Vergine Maria, dal padre a Ezio Bosso, da Miriam Makeba a Dio.
Senza alcuna consolazione, «utopia della salvezza», che pure non
compromette l'insistenza della ricerca «evaporando nella folle idea
degli umani / di valere qualcosa di più dell’umano». E la poesia
diventa tentativo quasi chirurgico di sanare la frattura, di rimarginare la
ferita («e non avrò riposo senza farmi araldo tra i miei simili») pur
nella consapevolezza che ne resterà traccia nel dolore di riflesso, nelle
cicatrici a vista. per cui, in fondo, «Meglio lasciare i sospiri /
affondare nel silenzio / in qualsiasi direzione, / prima che diventi
notte». Ciò che conta, nella consapevolezza della condizione di «gettata
tra utopia e morte», è l'urgenza di reagire in qualche modo, «un
filo teso tra il respiro e il vuoto», di agganciare, di raccogliere ciò che
passando ha lasciato qualche traccia giacché «Improvvisa la notte mi
prende alle spalle».
Ciò che muove questa risposta, questa
reazione d'amore sta nel sentimento del tempo e nella traduzione oggettiva e
collettiva dell'osservazione e della percezione su se stessa «nello
specchio deformato dei miei mille anni» che talvolta esplode in
segnali di una tragicità senza scampo «nella colpa di
vivere mai sopita» o, con
il sapiente uso del verbo “raccattare” nella poesia Sono di pietra,
il modo in cui sintetizza e descrive un paesaggio emotivo a cui non è lasciata
alcuna opzione se non, appunto, quella di restare di pietra. E quel tempo
si trasforma in un momento essenziale della raccolta, una sintesi tematica che
fa del respiro (respirare, respirazione, tra le
parole più frequenti e presenti nell'intera raccolta a fianco del nulla,
niente e della notte incombente) la
misura del residuo e della speranza. E ne diventa, appunto, elemento ricorrente
che dà senso, per un attimo – il tempo di un respiro,
appunto – al «giocare d'equilibrio e lavorare d'istinto». Quindi
un attimo breve e una posizione delicata: lì si gioca tutto, il momento unico
che segue all'osservazione e alla consapevolezza, la non-ancora-scelta fra l'accettazione
e la rassegnazione, fra la reazione e la speranza poiché, oltretutto, «Ho
lasciato i luoghi del tragico / per gettare via tutto di me» ma
soprattutto sempre un attimo «prima della schiusa della vita nuova».
Ed è tempo sospeso nell'attesa; tempo nel quale le «parole leggere da
asciugare al vento / (...) si prendono tutto / compreso il veleno da cambiare
in miele».
In questo spesso oscuro cosmo sperduto
nella dimensione speculare di sé, ciò che sembra restituire luce, anch'essa
persa fra la lontananza del ricordo e la distanza dell'immaginato, sono le
immagini splendide dipinte in punta di pennello che restituiscono una certa
forma di pace alla tragicità dell'esistenza e al lettore stesso: «se
sapessi ti porterei come un libro / da leggere ai piedi di un albero secolare,
/ all’ombra di un agosto infinito / col sapore di nespole sulle punte delle
dita», dove anche il linguaggio, pur senza rinunciare a quella
musicalità che appartiene al sentire stesso della poetessa, sembra distendersi,
rilassarsi ad un andamento più discorsivo che non ne compromette l'impronta
emotiva generale: «noi al riparo da ogni bugia / crescevamo promesse di
compassione / come fossero tenere primule» oppure «Come
vortice s’avvitano i miei anni / legati ai bottoni / ai lacci delle
scarpe» o ancora «lascio che le dita interrate / sfiniscano
l’eco / di un rintocco di vita».
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