Sfumature distoniche e oscillazioni nell'architettura de «Il Tempo della Carestia» di Gianni A. Palumbo
C'è da dire, senza tema di smentita, che raramente si ha la possibilità e la fortuna di imbattersi in testi poetici di spessore e intensità come questi elaborati ne Il tempo della Carestia di Gianni Antonio Palumbo. La silloge, edita da Tabula fati nel 2023, è stata già salutata da più parti come un'opera di particolare rilievo letterario ed è certamente il caso di sottolineare che accanto all'orizzonte letterario, l'opera propone una serie di percorsi possibili all'interno dei quali la "giostra" contenutistica ed emotiva architettata dall'autore trova piena rispondenza e conferma nell'impianto generale della raccolta: ripropone in piccolo, in ciascun microcosmo - che sia letterario, filosofico, sociale, valoriale, spirituale, linguistico, ideale e perfino "politico" - ciò che, più in grande, ci è parso costituire l'architettura vera e propria dell'intera opera. Una continua oscillazione che si nutre della nuda verità del sentimento che nasce dal proprio porsi in onesta relazione di fronte a se stessi e al proprio rapporto con il mondo e la storia; un'oscillazione fra granitiche certezze e fluidi punti di domanda dallo stesso peso specifico ma dalla diversa "afferrabilità".
G. A. PALUMBO, “Il tempo della carestia”, Tabula fati 2023
Avevamo definito "volute distonie" queste oscillazioni che riscaldano le dinamiche emotive e percettive della riflessione del poeta, quando nel 2022 aveva dato alle stampe la Poesia in cinque movimenti e due congedi: una plaquette, edita da Vitale edizioni, che in parte anticipava quello che ne Il tempo della carestia viene raccordato e portato a conclusione. Una ouverture a quella che sarebbe stata, appunto, la successiva pubblicazione monografica. E non a caso si utilizza il termine ouverture, quasi spontaneamente suggerito già dal titolo della plaquette. Perché l'impressione che lascia ad una prima lettura è quella di una sinfonia orchestrata consapevolmente secondo particolari dettagli incastrati in una architettura che tende non solo a mostrare senza vergogna alcuna, ma quasi ad evidenziare col coraggio della sincerità, una profonda distonia messa in ordine "melodico" sul pentagramma della vita e della storia.
Laddove distonia non è ossimoro o contraddizione ma una voluta sollecitazione "avversiva", un'acredine percettiva, una rasposa spinta dell'anima a tuffarsi in quel percorso di dolore ma risolutivo (almeno sul piano della speranza); l'unico in grado di trasformare la distonia in sintonia e, attraverso l'anelito all'Assoluto, infine in sinfonia.
Leggendo quest'opera sono risuonate nelle orecchie alcune note di Wagner: senza saper dirne il perché scopriamo dopo che il musicista è tra i preferiti dell'autore. Si percepisce la profonda consapevolezza da parte di Gianni Palumbo di metter su una sinfonia, appunto, volutamente distonica: di volerla prima "stonare" per poi intonarla con tutti gli strumenti a disposizione. I fiati della fede che inseguono le percussioni della ragione; gli archi del sentimento che accompagnano i legni della lotta. E l'unico amalgama corale del coraggio di mostrare il petto perché ciò che è dentro venga fuori, sfrontato e discreto, esaltando a sua volta le distonie che di quell'anima sono contorno e colori.
Si distingue l'accostamento, non già audace ma coraggioso, di temi e sentimenti anche di fede, slegati da riti e liturgie al punto da orchestrarne una propria, estremamente affascinante, che traduca e sintetizzi ciò che l'autore sa o pensa essere necessario hic et nunc, nel proprio tempo, nella propria dimensione, nel proprio e altrui essere umano.
Sarà opportuno procedere per gradi all'interno di un complesso discorso circolare che abbraccia vari livelli e tutti di natura diversa sebbene riproponendo quel medesimo "movimento" che strutturalmente costituisce elemento di grande fascino nella raccolta. E allora si osservi la struttura. L'opera è suddivisa in 9 sezioni: la prima ospita il Cantico del Controsamaritano che meriterà una riflessione a sé proponendosì, come pare, a summa e chiave di lettura dell'intera opera; l'ultima, L'asfalto e la grazia, è costituita da un poemetto che ha quasi l'andamento di un salmo responsoriale con l'iterazione latina dell'esametro Rōsa sēmper rosǣst | etiāmsi in stērcore dōrmiat (altrove dirà «perché il cielo resta cielo / e non perde il suo valore», p. 116, e ancora «che anche calpestato / un fiore / resta tale», p.22, con un sottile richiamo alla rosa shakespeariana di Giulietta). Non si tratta di una citazione ma di un esametro scritto esattamente in latino dall'autore e chi abbia conoscenza della metrica latina, non faticherà a "cantarci" sopra, per esempio, il virgiliano Tītyre, tū patulǣ | recubāns sub tēgmine fāgi per apprezzarne la perfezione compositiva. Già solo in questa modesta osservazione si affastellano una quantità innumerevole di spunti di riflessione che accennano a tutta una serie di percorsi possibili all'interno dell'opera.
Tornando alla struttura: nella metà quasi esatta della raccolta compare, a mo' di spartiacque, il terzo poemetto Il cantico di Orfeo che, nell'iterazione - seppur non così salmodicamente definita come nell'ultima sezione - del verso Verranno le baccanti a dilaniarti il viso oppure a offrirti l'inverno o ancora a picchiare nella testa, dipinge a tinte a fosche, oscure, infernali un panorama che tale si è posto fin dall'esordio della silloge con la figura, le atmosfere e le prospettive del Controsamaritano e non solo (si veda, per esempio, Alla notte a pag. 42: «Non c'é amore che salvi dalla notte / perché la notte è in noi», o «Forse è vero / che nascemmo per il buio» o ancora «Siamo notte notte notte») ma che nella chiusa di questo poemetto orfico intermedio si rischiara o tende a rischiarsi con l'invocazione all'amica sposa, capace lei sola "di rendere chiaro il canto", "di sanare ciò che è torbido", "di ricomporre, appunto, la luce" (p.78). Altro elemento chiave la luce ma tornerà l'oscurità più avanti così come già la luce compariva timida nella parte precedente: è ancora quell'oscillazione "distonica", oscurità e luce in questo caso, volutamente sfumata nella consapevolezza di una impossibilità di definizione assoluta ma nella bruciante volontà a doverci e volerci provare.
Se esiste dunque una fertile motilità emotiva, questa è supportata da numerose presenze "oscillanti" a più livelli che alla prima paiono fare da eco e supporto e che andremo definendo man mano che ci si addentrerà più in profondità nel testo. Una dinamica temporale, per esempio, è tra le prime ad apparire evidente anche solo alla lettura del titolo: Il tempo della carestia, costituito da due termini dei quali il primo suggerisce un percorso temporale e il secondo uno valoriale. Non di carestia reale si tratta: nessuno è a corto, nel mondo occidentale, definito "marcio", di beni di prima necessità; gli scaffali dei supermercati non scarseggiano affatto; l'Italia delle miserie e degli stenti del dopoguerra appartiene al passato, diremmo. Allora deve trattarsi d'altro: di un tempo evidentemente carente di valori se l'incipit dell'opera nomina a chiare lettere nientemeno che Auschwits e Bergen-Belsen, passando attraverso il mare che ricopre, quasi pietra sepolcrale, gli innumerevoli cadaveri che in esso hanno abbandonato la vita nelle traversate dei migranti e così a seguire, lungo tutta l'opera, attraverso, ad esempio, l'esperienza della Morte (nella sezione dei Trionfi dedicati al Petrarca) «assunta - come dichiara lo stesso Palumbo - nella dimensione collettiva del terremoto di Amatrice», fino all'ultima sezione dove l'ottica si restringe alla città di Molfetta e a un ricco "catalogo" di Controsamaritani in potenza o in erba, protagonisti del degrado del microcosmo cittadino nel quale «fiorisce il demone meridiano del sesso, della droga, della violenza». Un percorso temporale, dunque, che parte dai tempi biblici (letteralmente) e arriva al Novecento e alla più stringente contemporaneità e che è pure un percorso spaziale e valoriale che ha inizio dall'umanità intera e dai suoi "peccati" (con il punto più basso raggiunto dall'oscura natura umana nella storia moderna, l'Olocausto appunto) e giunge alla dimensione cittadina e alle sua miserie. Quindi una dinamica, certo, vivacissima ma pure tutta "al ribasso"! Un percorso discendente che tende a contrarsi e nel quale Palumbo gioca per rovesciamenti. Il Contro-samaritano ne è prova, esordio e chiave di lettura: il contrario esatto della figura biblica del Buon Samaritano che il poeta presenta con una spietata prima persona plurale prima e singolare poi: «noi che non morimmo / e siamo vivi a stento / per la vergogna che coprì le nostre case» e, di nuovo restringendo «dove sono io / l'italiano che, salendo da Gerico a Gerusalemme, / non si volse e passò oltre?». Difficile, almeno per chi scrive, non figurarsi, in questo percorso discendente e contraente fatto di peccati e di miserie umane che ne ipotizzano l'oscura natura, una sorta di cono rovesciato - dall'ampio al ristretto - un inferno (è una delle parole più presenti all'interno dell'opera: si veda a titolo esemplificativo, oltre alle già citate Alla Notte, p. 42 e Il cantico di Orfeo, p. 74, anche la poesia A Thomas Stearns Eliot, p. 43) al centro del quale, tuttavia, non è ancora chiaro chi vi sia collocato.
Osservando più da vicino il poemetto d'esordio, vita e storia si intrecciano amaramente in una sorta di atto di dolore, di invito ad un forse possibile, forse necessario mea culpa collettivo per cui l'originale identificazione e ricollocazione della figura biblica sintetizza il Novecento rapportandolo ai percorsi della coscienza individuale senza i quali parrebbe impossibile collocare l'individuo all'interno del proprio tempo. Da lì comincia quel tempo: da lì è necessario cominciare a rifare i conti.
Così, in questa dilatazione temporale (dal punto di vista della riflessione e della elaborazione poetica) che si pone accanto ad una pari contrazione storica e sociale (dal punto di vista del sentimento e dello slancio "sacro") si sviluppa subito, ex abrupto, l'invito dell'autore a seguire un percorso che va dalle oggettive conoscenze storiche del secolo scorso (le vittime dell'olocausto), scendendo attraverso il «noi che non morimmo / e siamo vivi a stento», fino all'"io", perfino "italiano", che «non si volse e passò oltre». Prosegue Palumbo in questo percorso "discendente" nella coscienza (storica e individuale, imprescindibilmente legate) fino a lanciare la prima nota "stonata", il primo accordo "allarmato", la prima distonia (mai ossimoro ma oscillazione al cui altro capo si raggiunge quel Rosa semper rosa est di cui si è detto) nella citazione vera e propria di un verso dell'inno nazista Marschieren im Geist in unseren Reien mit. Che guardacaso non è il verso di una lirica o il periodo di una prosa ma un vero e proprio canto. Ed è, anch'esso, spietatamente associato ad una sorprendente prima persona plurale.
Noi che gridammo
"Marschieren im Geist in unseren Reien mit"
Che violammo il fiore delle donne d'Abissinia.
Chiamatela desolazione questa morte
che abbiamo accarezzato giorno dopo giorno.
Chiamatelo sepolcro questo mare che si chiude
sulle vittime di noi controsamaritani.
Insomma, sembra dire, prendiamone una volta per tutte coscienza: che il silenzio e il voltare lo sguardo dall'altra parte non è meno colpevole del delitto in sé. Fare i conti con se stessi sembra non poter prescindere dal fare i conti con una Storia con la quale, seppure non si è stati protagonisti, è impossibile rapportarsi senza una parte di responsabilità che è e resterà tale sino a che non si avrà il coraggio di passare attraverso quella Storia con tutto ciò che quel passaggio comporta. L'ignavia, che è caratteristica del Controsamaritano, non basta a scrollarsi di dosso le colpe: controsamaritano è anche il contrario di Enea che porta in spalla il padre Anchise e nella mano i penati, rispetto all'italiano pronto a mettere a rischio anche gli affetti più cari in nome di non meglio specificate libertà, stupidamente percepite come minacciate durante il periodo del lockdown. «Enea portava / sulle spalle il caro Anchise / e noi su quegli altari / divoreremo le viscere dei padri, / per sopravvivere il
tempo di un istante» dirà nella poesia Francesco, è giunto il tempo a pag. 118. Una "battaglia" coraggiosa, quella di Palumbo, innanzitutto con se stesso (e qui tutta l'essenza e il senso delle oscillazioni di cui diremo ancora più avanti) che non è affatto priva di armi: si è usato pocanzi il termine sacro che in quest'opera è fondamentale chiave di volta della postura poetica dell'autore. Un filtro prima necessario al cammino proposto dal Nostro e man mano sempre più indispensabile ad esaltare quella distonia qui ancora nascente e che nel corso dell'opera diventerà qualcosa di diverso, di caratterizzante e di dirimente.
Si notino intanto due dettagli di particolare fascino: uno "tecnico", con la ripresa, nel verso successivo a quello dell'inno nazista, di una ritmica che ne richiama l'andamento sebbene si tratti di due lingue differenti; l'altro - a conferma di quanto precedentemente accennato - a mo' di abile gioco temporale che di botto presenta di fronte a una storia oggettiva, conosciuta e assimilata (vuotamente, diremmo) attraverso i libri di scuola, una storia contemporanea che invece ci appartiene profondamente: basta la sola citazione del mare come sepolcro a istituire un brutale quanto sincero trait d'union fra le onde che conducono all'Abissinia del secolo scorso e quelle che si richiudono sui barconi del nuovo millennio!
Il sottotesto pare evidente e successivamente si troverà confermato in altri versi della silloge: l'incapacità (che arriva fino alla disumanità) di affrontare le tragedie che inaugurano questo nuovo millennio hanno profonde radici nel dramma irrisolto del secolo scorso che tale è rimasto fino ad oggi perché mai affrontato a muso duro e viso scoperto tanto da riuscirsi a declinare ancora oggi in mille casi e con mille sfumature diverse: «Chiamate barbarie il furore della razza / che proclama la purezza dell'impuro» (p. 10). Una poesia della silloge, che chiameremo di nuovo in causa quando si tratterà di tratteggiare una soluzione all'infernale situazione umana, è dedicata al filosofo, sociologo e storico della letteratura ungherese György Lukács che, nella prima stesura della poesia Il sogno di una grotta, così come il cielo, il fiore e - aggiungo ora - l'Uomo, non perde il suo valore... per il solo che fatto che Viktor Orbán, nel 2017, ne abbia fatto rimuovere la statua dal parco Szent István di Budapest. Il suo pensiero sopravvive a lui. Il pensiero, in quanto tale, è nel momento in cui è pensato! E pertanto risulta inutile e stupido liberarsi delle effigi quando il lascito è ben più denso ed "essente": «L'idiozia, rimuovendoli, / s'illude / di arginare la fiumana del pensiero. / Ma il tuo pensiero, maestro Lukács, / orbita in alto». E guardare in alto, sarà proprio l'azione dirimente che risulterà necessaria nel momento in cui Palumbo tratteggerà il percorso contrario a quello finora battuto nel tentativo di offrire finalmente una via d'uscita dal panorama infernale nel quale l'Uomo sembra soffocare. Nient'affatto casuali sono i termini utilizzati dal Nostro in questi versi: orbita come verbo proprio dei cieli, anche con riferimento al Paradiso, che stanno in alto, dove è necessario portare lo sguardo; così come idiozia: un dispregiativo che carica di emotività la lezione dello stesso Lukács il quale, se da un lato, in estrema sintesi, recupera le teorie giovanili di Marx riproponendole in chiave antidogmatica e umanistica, dall'altro sottolinea ne La Distruzione della ragione (titolo emblematico anche ai fini di questa lettura), come alla base dei fascismi europei ci sia una matrice filosofica irrazionalistica. Insomma, tutto sembrerebbe dire che l'Uomo ha perso la ragione!
György Lukács
Pare a questo punto lecito considerare chiaro chi sia collocato al centro e nel punto più basso di quel cono rovesciato che nei percorsi temporali e valoriali disegnati da Palumbo richiama tanto l'Inferno dantesco: è l'Uomo stesso! Quasi accoccolato, rannicchiato, accovacciato e richiuso in se stesso; incapace di levare lo sguardo o di spingerlo più lontano del proprio naso. Una condizione che rende più comprensibile quel io e quel noi come perimetro psicologico, emotivo, sociale, collettivo e universale... anche in questo caso secondo un percorso dinamico che però comincia ad accennarsi non più discendente e contraente (il punto più basso è raggiunto ed è lì che siamo!) ma espansivo e magari ascendente.
È sulla luna che ascende Astolfo quando, attraverso mille peripezie, si tratta di recuperare e restituire il senno e la ragione all'eroe Orlando, ormai perdutosi! È verso l'alto il suo percorso! E guardacaso ecco anche Astolfo e Orlando chiamati in causa in questa silloge nella seconda sezione denominata Variazioni di Selene la quale se si apre proprio con la figura di «Astolfo matto a zonzo sulla Luna» (p. 25), d'altro canto si chiude con gli ultimi versi di quella A T. S. Eliot già citata, che così recitano: «Il tuo delirio era / è / quanto resta / della saggezza del paladino Orlando» (p. 44). Con una evidente posizione di preminenza della copula è, isolata nel verso e immediatamente successiva all'imperfetto precedente, a sancire una chiara condizione di progressione e attualità.
Torniamo ancora una volta alla struttura: si diceva delle 9 sezioni in cui è suddiviso il testo. E non può considerarsi un numero casuale: nella numerologia dantesca è il numero del miracolo; è il numero dell'amore divino ed il numero la cui radice quadrata è 3, il numero della Trinità. E se pure le cantiche della Commedia sono tre, ciascuna composta da 33 canti (se si eccettua il canto proemiale dell'Inferno), così come 9 sono i gironi dell'Inferno e 9 i cieli del Paradiso, è alla Vita Nuova che più pertiene il valore simbolico di quel numero. Nove è il numero di Beatrice, incontrata da Dante per la prima volta a 9 anni e la seconda volta solo 9 anni dopo. Così come il primo saluto gli fu rivolto all'ora nona del giorno (alle 15.00 del pomeriggio). Beatriciando è un originale testo poetico, lieve e tenero, che restituisce un senso preciso, a nostro avviso, a questa scelta strutturale del Nostro. Ancora nel Controsamaritano scrive:
Prego e pregate Dio
che tutti possa e voglia assolvere.
Ma meritiamo poi l'assoluzione
noi che passammo accanto alla Morte
tante volte e che non siamo morti
neanche un giorno, neanche un poco?
Palumbo cerca in qualche modo, di disegnare una prospettiva che possa consentire di porre riparo ai guasti che abbiamo lasciato correre distogliendo lo sguardo (è ancora la prima plurale a campeggiare evidente) o che, altrimenti, qualcuno ci assolva! E il testo si trasforma in una preghiera tutt'altro che laica ma che percorre la rischiosa linea di confine del sacro - come si diceva sopra - senza "urtare" dogmi confessionali probabilmente inutili (antidogmatico e umanista si diceva a proposito della lezione di Lukács) ma, d'altro canto, senza neppure incensarsi liturgicamente in culti vuoti e ripetitivi. Un salmo senza ritornello ma pur sempre una preghiera, uno sguardo al cielo che traduce (ed è inevitabile) l'Assoluto in Dio (e mai il contrario!), dove quest'ultimo è forse solo la traduzione più e prima che il contenuto. Che è e resta, per quello che ci pare, solo e soprattutto l'Uomo! Tant'é che il verso recita «che tutti possa e voglia assolvere»... ma come "possa"? Non è forse Dio onnipotente? Ecco perché non è l'aspetto dogmatico a interessare in questa raccolta e la appena citata Beatriciando, con la sua levità e delicatezza, pone al centro uno scherzo di sorrisi e complicità fra due innamorati in un contesto nel quale poco c'entra la liturgia, relegata piuttosto «ai maestri dell' eterno» (è scritto in minuscolo!) ai quali «il Fato lasci / i cori celestiali e le aureolanti armonie». E ci è parsa pure leggerissima dissacrazione dell'incontro del sommo poeta con Beatrice se a questa lirica accostiamo la citazione parodistica dell'ultimo poemetto il cui verso recita «Guardaci ben, ben son la beccaccia» (p. 133) ad evidente richiamo delle parole della stessa Beatrice nel Purgatorio: «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice». Una preghiera tutt'altro che laica, dunque, capace di recitare «Il tuo volto, Signore, io cerco», (Salmo 26:8), senza mai liberarsi di quell'umanissimo «il demone m’assale / dell’incertezza» (p. 101, nella sezione Canti spirituali).
Ciò che conta è l'atteggiamento e il punto di vista tutto umano, umanissimo ripetiamo, di percezione della vergogna, di senso di responsabilità sociale e di desiderio di porre fine a una panorama di brutture in cui habitat e abitante concorrono al ribasso. Ma come? Attraverso cosa? Redenzione e perdono sono opera di Dio ma l'Uomo? Cosa spetta all'Uomo? Quell'uomo che abbiamo lasciato sprofondato nel punto più basso e oscuro dell'Inferno al posto di Lucifero (il portatore di luce), con la testa fra le mani incapace di reagire ad una bulimica ignavia; un uomo che fatica a chiedere un'assoluzione una sorta di homo deus che ormai ritiene quasi di essere in grado di assolversi da sé senza porsi il problema del merito (che qui invece viene "intonato" quasi gregorianamente) e un Dio che, capitalizzando la storia letteraria (e diremmo pure musicale, guardacaso) del Novecento, se non è morto, ha di certo abdicato se - come pare - viene meno la certezza del perdono del Dio è amore, al punto di dover sperare che voglia e possa assolvere tutti. Ne è consapevole Palumbo se nel primo movimento "selenitico" - dove torna l'"io" prestato a una figura femminile, una prostituta («E sono stata io stessa cane / sul ciglio delle vostre strade») - così canta:
E non c'è Dio
e non c'è uomo
che ci salvi.
Forse ci salva un volto
che affiora da un cantuccio in fondo al cuore.
Forse ci salverai tu
se solo saprai ricordare
che anche calpestato
un fiore
resta tale.
Ci piace sottolineare un passaggio che rinvigorisce nuovamente la distonia con il ricorso a un'oscillazione fra un "io" (un "noi") e un "tu", il primo fatto di accordi in minore che piangono l'essere un cane ai bordi della strade dove si vedono morire uomini e urlano la tragedia di un piacere rubato, comprato «che se non piace, / qualcuno altrove paga e muore / non come muore un uomo / (...) ma come muore un cane» e il secondo, al contrario, capace in pochissimi versi di alterare il colore delle note in una tenerezza dai toni pastello completamente contrapposta al precedente.
Palumbo dirà sempre che alla granitica monumentalità di Dante, preferirà le umane oscillazioni del Petrarca, suo poeta prediletto. E non a caso a questo è dedicata l'intera sezione dei Trionfi. Oscillazioni che, come accennato, sono un tratto distintivo di questa silloge. Oscillazioni di fede, fra slanci mistici e precipitose cadute nel dubbio; oscillazioni "letterarie" che vanno dai già citati tempi biblici fino al Novecento e alla contemporaneità del nuovo millennio, passando - in estrema sintesi - attraverso il mito greco (Orfeo), il Duecento di Dante e Petrarca e il Cinquecento di Orlando e Astolfo; oscillazioni linguistiche che affiancano registri alti ad espressioni più squisitamente popolari per cui ci si imbatte in preziosismi nutriti da arcaismi e lemmi desueti e ricercati così come di dantismi (malparlieri, diffinizioni, obtuto, sememi...), prestiti lessicali (francesismi, per esempio, come allure) ma anche vere e proprie composizioni in altra lingua (francese, tedesco, latino) accanto a vocabolari più propri della "volgare eloquenza" quali, per esempio, fottuto o il molfettese spatucce o perfino culo nella poesia Bari (p.59); oscillazioni di natura spirituale e sentimentale: fra la straziante consapevolezza dell'oscura natura umana e il sincero e tenero recupero degli affetti più cari.
Tornando quindi alla domanda: cosa spetta all'uomo? Fondamentale il recupero degli appena citati affetti più cari, vero e proprio antidoto alla rassegnazione; quel guardare e guardarsi attorno che è il nocciolo ricompositivo delle sezioni più intimistiche e private Non alla luna, non al vento di marzo e Familiares, a cui si affianca un guardarsi dentro e segue forse solo uno sguardo verso l'alto, con tutto l'armamentario allegorico che il gesto può supportare. Che si tratti di reazione all'ignavia o di consapevolezza di una necessità di assoluzione, l'alto è di certo la sede "istituzionale" di quel Dio Amore «che move il sole e l'altre stelle» ma lo è anche del già citato pensiero di Lukács giacché «il tuo pensiero, maestro Lukács, / orbita in alto». In questo viavai di angeli e demoni che da solo basterebbe a sintetizzare efficacemente l'intero Novecento, una volta toccato il punto più basso, può davvero l'Uomo rassegnarsi a rimanere al fondo?
La domanda sollecita una riflessione di natura filosofica che ripercorre il cammino di Lucifero, il portatore di luce, angelo prediletto da Dio che, sbattuto fuori dal Paradiso, precipita al centro dell'inferno, pure citato nella splendida poesia Il richiamo del mare nella quale si canta «l'indolenza lieve / d'un angelo / per ignavia sbalzato via dal cielo» (anche in questo caso il peccato è l'ignavia e anche in questo caso torna nuovamente - e con un fascino superlativo - l'"io" «che degli angeli / non veglio la luce!»). Metafora evidentemente del male inteso come degenerazione del bene che, sillogisticamente, non vale al contrario: il bene non è né può essere concepito come degenerazione del male. Tanto più vale, pertanto, la possibilità prima e la necessità dopo, di un itinerario al contrario. Nell'elaborazione di un percorso di risalita (verso l'alto, appunto) è anche la risposta di Palumbo; nell'identificazione di un "punto di ritorno" che è matrice ed essenza della necessaria mancata rassegnazione. E quel punto di ritorno è proprio in quello sguardo, nella sua genesi, nel suo percorso verso...
Se, pertanto, in alto il pensiero è, va necessariamente tradotto anzi, diremmo, tràdito: solo così «Parole nuove sbocceranno dall'abisso» (p. 75). Parole, appunto! Ed ecco il passo definitivo: un atto ricostitutivo di poiéin attraverso la Parola! Che ha così pari dignità e sacralità di quanta ne ha il divino giacché è il verbo il solo a precedere il fiat lux e, poi, il verbo si fece carne! Diventa chiaro il delinearsi di quel percorso all'incontrario che tende alla risalita verso il punto originario di questa riflessione. Eppure, in qualche modo se ne discosta; in un atto declamativo di orgoglio e potenza che è acquisizione definitiva di una consapevolezza indispensabile a rifare quel percorso al contrario ormai necessario al recupero dell'Uomo dalla posizione in cui appariva finora incastrato, attraverso una sorta di "atto di forza". Insomma, necessario alla salvezza dell'Uomo poiché «cancellare la parola / è cancellare se stessi.», e aggiunge «E colpo d'ascia sia / su spazi / da decostruire / e ricomporre».
In definitiva un invito o, meglio, una sollecitazione forte, sentita, ragionata, motivata, elaborata, partecipata e giustificata ad acquisire consapevolezza definitiva che questo è tempo di carestia e non si tratta certo né può trattarsi di normalità (per quanto orrendo possa apparire il termine). Se proprio di fede bisogna parlare, senza nulla togliere al rispetto di quanto e come ognuno sente ed esprime in merito a questa delicatissima materia, più che di un poeta mistico pervaso dall'afflato divino ci pare di essere di fronte al fine studioso infiammato da un'autentica e sincera passione umanistica che inevitabilmente mette proprio l'Uomo al centro di un complesso corollario di riflessioni, osservazioni e speculazioni. Né ci pare possa essere diversamente giacché, come detto al principio e per chiudere il cerchio, «il cielo resta cielo / e non perde il suo valore» e, dall'altra parte, «un fiore / anche se calpestato / resta sempre tale»! Attraverso quindi la Parola e la poiésis, Palumbo coraggiosamente disegna quell'atto ricostitutivo assoluto che tende ed anzi sollecita con orgoglio a «decostruire e ricomporre» in spazi che sono anche spazi dell'anima; spazi a cui l'Uomo appartiene e che appartengono all'Uomo. Il quale non può, evidentemente, rassegnarsi allo stato attuale delle cose perché questo è Il tempo della carestia e, proprio per questo, da qui bisogna uscirne!
Un'immersione sincera e onesta nel dolore e nelle sue ragioni, senza infingimenti ma con assoluta disposizione all'osservazione e all'attraversamento dello stesso perché non si esce da nessuna parte nella quale non ci si sia immersi. E se l'immersione o, meglio, la caduta può essere casuale, colpevole o inconsapevole, al contrario non c'é via d'uscita senza consapevolezza.