Il cifrario antifascista ne LA GRAZIA di Dino Terra. Uno studio pugliese svela un mistero letterario lungo 80 anni
Il giovane prof. Gianni Antonio Palumbo, molfettese, docente di Filologia e Critica Letteraria presso l’Università di Foggia – fra i più competenti e promettenti critici letterari nel panorama nazionale – ha recentemente dato alle stampe Dino Terra tra antifascismo e libertà, una perla saggistica per i tipi di Progedit (Bari, 2025) che accentra l’attenzione analitica su un controverso romanzo di Dino Terra (al secolo Armando Simonetti, Roma 1903 – Firenze 1995) dal titolo La Grazia (prima edizione Garzanti, Milano 1941, ovvero XIX anno dell’era fascista, in pieno secondo conflitto mondiale), recentemente riproposto nella collana “ricerche” dall’editore Marsilio (Venezia 2023, su incarico della Fondazione Dino Terra) con introduzione dello stesso Palumbo.
Sulla trama principale del romanzo del ’41, tutta percorsa dalle vicissitudini della relazione adulterina fra Giulia, moglie annoiata in cerca di un diversivo e l’architetto Guido, costellata da episodi tragici, grotteschi e ambivalenti, si innestano una serie di vicende i cui protagonisti diventano creature fiabesche e mitiche che conferiscono all’opera una straniante atmosfera surreale, a cominciare dalle tre figure di spicco che, assimilate alle tradizionali Grazie della mitologia classica (Aglaia, lo Splendore, Eufrosine, la Gioia e Talia, la Prosperità), se ne distinguono non solo per i nomi, affatto diversi (Ebe, Iftima e Aleissiarre) ma anche per il loro essere «innocenti com’è innocente l’aguzza lama che sventra», per taluni parodistici richiami al Paradiso della Commedia e perfino per il loro linguaggio così colmo di curiose e incomprensibili iterazioni monosillabe e onomatopee. Una per tutte, quello «zin frush frush» che tanto da vicino richiama lo «zang tumb tumb» del Marinetti futurista. Quel Marinetti che con Benito Mussolini partecipa alla fondazione dei Fasci italiani di combattimento e che qualche tempo prima esaltava la guerra con il D’Annunzio creatore di lemmi e motti poi adottati dal fascismo stesso, come il noto «Eia eia alalà», non a caso mutuato da un incitamento legato al “glorioso” mondo romano antico.
Tre “dis-grazie” nel cui intervento non c’è ombra di salvezza ma, al contrario, una negazione della responsabilità senza alcuna attenzione alle conseguenze del proprio agire e, per loro stessa ammissione, ben oltre «il senso del limite che deve separare il mondo umano da quello divno».
Tre “dis-grazie” delle quali la prima, Ebe, è anche la dea della Giovinezza e i cui nomi, unificando le iniziali, generano un acronimo tutt’altro che estraneo. Si mettano insieme questi dettagli e si scoprirà solo il primo degli elementi che costituiscono il cifrario rivelato sapientemente dal prof. Palumbo.
Fin qui – certi di non aver fatto torto né all’autore né all’editore – ci si è soffermati su uno solo degli innumerevoli elementi caduti sotto la lente indagatrice di Palumbo. Tante le domande che si ripropongono nel percorso che attraversa il romanzo La Grazia (con la maiuscola): «Da più parti, – scrive Terra – con la loro apparenza di commovente seduzione, giunsero le ninfe, e tutte senza indugiare disparivano nell’interno dell’ampia tenda. Il gufo riconobbe Aglaia e Iftima e Ebe e altre. Diciannove ne annoverò, e quando venne la diciannovesima anche Aleissiar gettò il corno e raggiunse le compagne. Allora caddero le cortine dell’ingresso e d’un subito spesse lastre di ghiaccio avvolsero il padiglione».
Dunque cos’é esattamente quella Grazia del titolo? Nella prima stesura, il romanzo aveva un titolo differente e di per sé forse meno utile a nascondere un prudente quanto acuto cifrario in un testo che vede il suo battesimo (e riproposizioni pubblicitarie) nella rivista “Quadrivio”, settimanale che si proponeva di «Rivelare a tutti – italiani e stranieri – questo nuovo splendore romano» e finiva per divenire cassa di risonanza di un fanatismo ideologico particolarmente acuto. «Il senso del limite e la poeticità della follia di chi questo limite oltrepassa sono motivi chiave di un romanzo di forte sapore teatrale e dove potente generatore di ambiguità è il titolo, nella polisemia recata in sé dal concetto di Grazia».
Il titolo originario, così come da prime bozze inviate alla Garzanti da Terra il 23 gennaio del ’41, avrebbe dovuto essere In bocca al drago. Certo, «nel contesto in cui il romanzo vedeva la pubblicazione, in pieno conflitto mondiale», scrive Palumbo, quel titolo poteva rimandare più o meno esplicitamente alla «tregenda che collocava l’umanità intera “in bocca al drago”» della guerra globale ma è più che lecito, nell’ottica del cifrario antifascista, pensare al drago come metafora di qualcos’altro. E cosa? Così come altre sono le domande che lo studioso pugliese si pone «lambiccandoci il cervello» per coglierne il senso più vero e profondo.
Il gufo, il bianco gufo privo di intuizione: cos’é o chi è? Qual è il senso della sua osservazione e del suo agire finale? Perché il gufo conta, con precisione cronometrica, diciannove ninfe, non una in più né in meno? E ancora: il padiglione che scompare dietro spesse lastre di ghiaccio, l’eclissi delle Grazie al verso di “alalì” e la comparsa dei sorci il cui grido rassomiglia «al fischio di uno schifoso palloncino che si sgonfia». E così procedendo, con innumerevoli ulteriori misteri e domande che avevano fatto de La Grazia di Terra un’opera piuttosto controversa e a cui Palumbo, con brillante acume e assoluto rigore scientifico, offre affascinanti risposte comprovate da dettagli sapientemente disseminati nel testo.
«Quadrivio nasce in Roma alla vigilia dell’anno dodicesimo del regime fascista, quando è con le parole di Roma che s’intesse laboriosamente la storia del mondo», recitava l’editoriale del numero d’esordio del 6 agosto 1933. Nel terreno di questa rinnovata grandezza di Roma si innestava, come scrive il prof. Giuseppe Langella in Il Secolo delle riviste (Milano, 1983), «il principio totalitario della finalizzazione nazional-fascista della letteratura». Non è solo il “Quadrivio” la rivista filofascista a cui Terra collabora pur riuscendo sempre a mantenere un’ammirevole indipendenza intellettuale. Anche “Il Tevere”, o l’“Impero” o “Il Popolo di Calabria” videro la sua firma, come indica la prof.ssa Daniela Marcheschi in Collaborare ai giornali: Dino Terra, l’impegno di uno scrittore (Venezia, 2017). È in questa temperie culturale, in questa atmosfera che si comprende come un cifrario antifascista, ben al di là di un mero vezzo letterario, fosse una necessità a tutela della libertà e dell’onesta di un intellettuale libero e dissenziente quale fu Terra. Scoprirlo, punto per punto, attraverso la lettura del testo di Palumbo è operazione assolutamente accattivante e stimolante giacché «dietro un’apparente storia che intreccia mito e quotidianità, con il recupero di Grazie che non sono però quelle canoniche della mitologia greca, Terra cela l’intento di dar voce alla speranza nel crollo di quel regime che aveva trascinato l’Italia nell’assurda avventura della guerra».
Giuseppe Langella e Daniela Marcheschi
Piace, infine, sottolineare un dettaglio che nasce dalla semplice e modesta riflessione di chi scrive. Nella sua qualità di Direttore editoriale della neonata, eppure già molto apprezzata, rivista letteraria La calce & il dado, Palumbo pubblica, nel numero d’esordio, un racconto a firma di Giuseppe Palumbo, dal titolo Aquafredda: narrazione di un’esperienza realmente accaduta nella propria famiglia, scampata a una retata nazifascista giocando sull’equivoco e l’assonanza fra Acquafredda e Acquaviva: i nazifascisti, infatti, ritenevano che un utile metodo per identificare le famiglie di origine ebraica fosse il fatto che taluni cognomi corrispondessero a nomi di città. Una sottilissima vena ironica mi pare attraversi quell’ottimo racconto; la stessa che mi pare correre anche attraverso il testo di Palumbo sul cifrario del Terra. Lo stesso professore, inoltre, nella sua ultima silloge poetica Il tempo della carestia (Tabula fati, Chieti 2025) tira in ballo György Lukács il quale sosteneva che la principale matrice ideologica dei fascismi europei fosse la cultura filosofica irrazionalistica.
Irrazionalismo che nega la ragione come unico strumento di conoscenza, che è anche un modo diverso di definire il deragliamento dai binari del buon senso e di codificare la perdita della ragione (nella stessa silloge compare anche Astolfo a recuperare il senno perduto dell’eroe Orlando); perdita di senno che, a sua volta, è anche un modo elegante di chiamare – dategli un po’ il valore che vi pare – la stupidità. E sotto certe divise, con un sotteso scherno finemente sottaciuto (che credo risponda a un profondo antifascismo che definirei perfino spirituale) anche in questo svelamento del cifrario terrano pare che Palumbo ne amplifichi l’entità al punto da meritare un convinto e motivato plauso.
Vito Davoli
G. A. PLAUMBO, Dino Terra tra antifascismo e libertà, Progedit 2025
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