Intervista di MAURIZIO EVANGELISTA in 3 parti sul Quotidiano di Bari
Propongo di seguito l'intervista completa rilasciata al poeta MAURIZIO EVANGELISTA, pubblicata in tre diverse puntate sul QUOTIDIANO DI BARI nei giorni 25 febbraio, 4 marzo e 7 marzo 2025. Profondamente grato a Maurizio, ad ANTONIO ROTONDO, curatore della rubrica Diari del Tempo, in cui l'intervista è stata ospitata, così come all'intera redazione e alla direzione del Quotidiano di Bari.
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Attraverso la parola
25 febbraio 2025
Organizzatore di numerose antologie, nonché attivo promulgatore dell'arte poetica, Vito Davoli non è solo un poeta generoso ma probabilmente tra i più significativi portavoce della poesia contemporanea del sud. Ho chiesto a Vito di confidarmi il suo approccio alla poesia, alla bellezza, che il verso deve saper cogliere, la sua sfida nel cercare quella frattura del senso che sola crea un altro universo.
Ciao Vito, la poesia è ancora capace di una resistenza?
La poesia sicuramente sì. I poeti forse un po' meno.
La poesia, fra i tanti, ha un grande pregio: è e diviene. Mi ha sempre incuriosito chi cerca di sintetizzare l'essenza della poesia attraverso la classica espressione "La poesia è..." questo o quello. Per carità, tutto vero! Ma nulla è sufficiente a definirla in toto. Allora mi piace fermarmi un po' prima: La poesia è! Ed è ciò che essa stessa diviene! E il suo divenire è creazione (Poiéin), attraverso la parola. Non c'é quasi nulla di metafisico o trascendentale in questo: lo sperimentiamo ogni giorno, nella nostra più spicciola quotidianità. Non necessita neppure di essere dimostrato: ci confrontiamo ogni momento, più o meno consapevolmente, con parole ed espressioni che determinano realtà fattuali che accettiamo quasi senza battere ciglio. Penso, per esempio, a "pace giusta" e mi domando: ma esiste davvero pure una pace ingiusta? Oppure all'espressione "corridoi umanitari" che in qualche modo definiscono - ma tacciono prudentemente e colpevolmente - tutto ciò che è fuori da quei corridoi come disumano. Eppure è proprio ciò che è fuori ad avere la priorità su quei corridoi. Ed è aberrante! Allora sì, la parola può definire realtà. Dominanti e alternative. E allora la poesia è di certo capace di disegnare il mondo in modo diverso, di ricollocare l'uomo nel posto che gli compete e di resistere ad architetture dogmatiche normalmente spendibili a carissimo prezzo e mai a vantaggio della collettività. Men che meno dei più deboli.
Come sosteneva Kafka, la letteratura (e quindi la poesia come sua forma più alta) non ha l’obbligo di consolare né rallegrare quanto, piuttosto, di svegliare le coscienze. Dev’essere un’ascia che rompa il ghiaccio delle menti delle persone, scrive Mircea Cartarescu. E questo ghiaccio è esattamente l’ordine precostituito.
Cosa significa pubblicare poesia?
Credo che ogni pubblicazione dipenda dalla natura della poesia stessa. Pubblicare una "mia" opera monografica è cosa molto diversa dal pubblicare un'antologia di autori scelti radunati attorno a un tema, ad un obiettivo di ricerca e indagine o ad una specifica finalità. Nel secondo caso, cosa significhi pubblicare poesia è più evidente e definito: penso, per esempio, a Il gommone forato, a cura di Tania Di Malta con prefazione di Guido Oldani del 2022 o ai più recenti Il buio della ragione, curato con Marco Cinque (2024), e Sfilata d'alti modi a cura di Giuseppe Langella, di quest'anno.
La silloge poetica di un singolo autore resta comunque un atto di condivisione dell'io poiché comunque di esperienza individuale umana si tratta e allora pubblicare può voler significare anche (e proprio!) condividere, aprirsi all'altro. Non ha nessun senso pubblicare per mettersi sotto un riflettore: nessuno può pretendere di aver vissuto l'esperienza totale o di proporsi come paradigma dell'esistenza umana. Non sarebbe neppure un atto di boria: piuttosto una più semplice e autentica stupidaggine! Pubblicare, a mio modesto avviso, è mettersi in gioco: per questo sostengo che in poesia non è possibile mentire. Non serve costruire un artefatto estetico che celebri il come vorrei che gli altri mi percepissero. È piuttosto un mettersi in discussione, un atto di coraggio nel cercare di disegnare quei contorni umani che altro non sono che i limiti entro cui si muove l'io e la sua esperienza "terrena". Anche quando si decanta un limone, come fa Neruda, o un fiorone, come fa Ada De Judicibus Lisena o si tenta di esperire il "sacro immanente" come fa Pasolini. Credo che pubblicare non significhi né proporsi né sfogarsi quanto piuttosto abbandonarsi. Lì trovo il senso della parola condivisione.
In una comunicazione che si concede troppo spesso alla velocità, alla superficialità, per dirla con le parole di Emilio Tadini, critico d’arte e di letteratura, la poesia manca deliberatamente ogni bersaglio?
Per restare nel contesto di Tadini non direi che la poesia manca deliberatamente ogni bersaglio ma la metterei in questo modo: per un bersaglio che per essere colpito con precisione millimetrica necessiterebbe di frecce (e quindi di mira, concentrazione e, appunto, precisione), la poesia (?) si ostina - in questo caso sì, deliberatamente - ad usare lanciafiamme (velocità, dicevi). Con tutto ciò che ne consegue: scalpore e spettacolo assicurati ma senza troppa fatica di concentrazione e precisione. Poi peccato che il bersaglio sia andato in cenere invece che colpito perfettamente: io comunque ho sparato! (superficialità, aggiungevi). E mi pare questo l'atteggiamento di buona parte di poeti e critici di oggi. È il malinteso dell'io protagonista e non ha nulla a che vedere con la poesia. Che resta lì, inespressa e irrealizzata, quasi sopraffatta dall'autoassoluzione del poeta ma senza esserne scalfitta minimamente. Bisognerebbe "solo" essere capaci di riconoscerla e recuperarla. E piegarsi ad essa. Poi è essa stessa, in quanto diveniente - come si diceva sopra - a rendersi duttile alle novità espressive, tematiche, contenutistiche, estetiche... che la porteranno ad entrare in relazione con questa realtà: ad esprimerla e ad esserne espressa.
La poesia è l'altro nome della libertà
4 marzo 2025
Vito Davoli, poeta, giornalista e critico letterario, ci dimostra, tra le pagine di questa intervista (...), come la poesia possa essere cartografia esatta di chi siamo e cosa pensiamo.
La poesia ha ancora un suo spazio, un pensiero differente?
Certo che sì, ma distinguerei lo spazio dal pensiero differente. Nel primo caso è forse più facile definire quale non sia lo spazio della poesia che non il contrario... Sarei tentato di dire che lo spazio "naturale" della poesia è l'anima, quale filtro della percezione e dell'elaborazione della realtà. Com'essa, forse non pesa più di qualche grammo e al pari dell'anima nessuno è ancora riuscito a definirla compiutamente. In effetti definire lo spazio della poesia è arduo - e forse anche inutile gioco accademico - quanto tentare di definire la poesia stessa: ma in qualche modo non se ne può fare a meno. Dopotutto il mosaico non è che un insieme perfettamente strutturato di tasselli e forse siamo solo lontani dall'essere capaci di osservarlo tutto. Ciò che è fuori di dubbio è, invece, che è compito del poeta mostrare ciò che non si vede ad occhio nudo; è suo sacro ufficio la diversità. Al di là dello spettro del visibile oggettivo, il poeta agirebbe sull'infrarosso e sull'ultravioletto che sono parte integrante di quella stessa realtà visibile: invisibili per incapacità dell'occhio umano, non inesistenti. E questo ci avvicina all'idea del pensiero differente. La storia ci ha benevolmente allontanato dal pensiero unico del poeta che esalta il mecenate o di quello organico al sistema (né qui si negano le somme vette della grande poesia dei classici). Nel Discorso di ringraziamento per il premio FIL di Letteratura in Lingue Romanze del 26 novembre 2022, il già citato Mircea Cartarescu, il più grande scrittore rumeno contemporaneo e tra i maggiori al mondo, già candidato al Nobel per la letteratura, scrive: «Per Platone la sovrastruttura musicale e artistica della città ideale poteva minare la sua base totalitaria. Se la musica ha un potenziale sovversivo ed è capace di trasformare l’ordine sociale, la poesia è perfino più temibile. Nella città-stato platonica, gli unici poeti ammessi sono quelli ufficiali, i laureati, quelli che cantano inni e odi alla perfezione del sistema. La sua partitura è rigorosamente regolata, il suo discorso estetico è uno e invariabile. Il poeta libero, con un discorso plurale, che imita tutte le voci della città, non ha spazio nell’ordine prestabilito». E invece «L’arte della poesia, sempre alla ricerca della bellezza, sempre agonizzante e sempre resuscitata, è sempre stata inclusa inevitabilmente fra i mezzi più efficaci per ravvivare le coscienze, per ridestare la dignità umana, per preservare la libertà sempre minacciata nel nostro mondo hobbesiano. La poesia è, di fatto, l’altro nome della libertà». Come vedi, un altro "La poesia è...". E come tutti gli altri, ha pieno diritto di cittadinanza. E credo con questo di aver risposto al tuo "pensiero differente". Dopotutto quale sarebbe il luogo ideale del pensiero differente se non quello della libertà?
Attraverso la tua esperienza di fondatore e vicedirettore della rivista letteraria “La Calce & il Dado”, credi che sia utile realizzare una carta poetica del Sud, come scriveva Salvatore Quasimodo, ovvero uno spazio letterario per comprendere l’identità plurale del nostro territorio?
Istintivamente direi di sì ma anche qui distinguerei una carta poetica del Sud da uno spazio letterario per comprendere l'identità plurale del nostro territorio. La seconda ha un valore decisamente più appetibile rispetto alla prima che, inevitabilmente, disegnando un perimetro così netto, peccherebbe - con i soliti manifesti di qualcosa - di esclusività con il rischio, ahimé già sperimentato, di creare feudi e feudatari. Insomma, mi suona male. Anche perché percepisco pure il rischio di finire per rispondere agli odierni sistemi che collocano arbitrariamente la grande poesia solo a nord (e in determinati territori del nord, in genere coincidenti con quelli dei grandi editori) con gli stessi arbitrari errori. Detto questo resto profondamente convinto che, sì, sia assolutamente necessario portare all'attenzione del pubblico le peculiarità letterarie del nostro territorio. Magari in relazione o in una qualche forma di rapporto con altri territori e con il resto del paese, non certo in contrapposizione. In questo solco nasce e agisce anche La Calce & il dado. Peculiarità che sono specifiche, caratteristiche, uniche, affascinanti e mi fermo qui perché sarebbe fin troppo evidente la mia innamoratissima partigianeria. Senza considerare il valore di certe potenziali operazioni "pontificie" (in senso squisitamente etimologico) che il nostro territorio può vantare con altri paesi e talune aree geografiche del globo. Basterebbe citare qualche nome, anche solo fra i viventi (che non farò un po' per ragioni di spazio e un po' per non dispiacere nessuno), per rendersi conto di quanta nobilissima dignità vanterebbe una consapevole, inclusiva, condivisa e pulita operazione di questo genere.
Se ti chiedessi un’intervista impossibile a un poeta, chi sceglieresti?
Questa domanda mi provoca istintivamente un sorriso cinico. Ti dirò: dipenderebbe se mi concentrassi di più sull'intervista impossibile o sul poeta. E così sarei piuttosto propenso a provocare, con un'intervista impossibile, il più convenzionale dei poeti e, parimenti, mi divertrei a irritare con un'intervista canonica, tradizionale, anche banale, il più anticonformista dei poeti. A dirla tutta, quando ho letto la domanda, di getto mi è venuto il nome di Jack Hirschman: credo ne sarebbe venuta fuori qualcosa di grandioso. Un poeta vero! Al quale stanno bene addosso entrambe e nessuna delle etichette di poeta anticonformista e poeta laureato. È quella che chiamo ridondanza di aggettivi: lui è poeta e basta. Io stesso mi contraddico avendolo appena definito un poeta vero.
Poi mi è venuta in mente una "amica poetessa", una di coloro per le quali poesia dev'essere tutta petali, tramonti, gabbiani e sospiri svenevoli, che di fronte alla parola "culo" in una mia poesia, disse che non le piaceva perché troppo volgare. Le chiesi se avesse mai letto Catullo. Mi rispose con il prevedibilissimo Odi et amo (il verso, non l'intera poesia): evitai di citarle il redde putida moecha codicillos o la sborra nei versi di Hirschman. E qui credo che più di uno, anche fra gli insospettabili, abbia storto il naso! Tant'è.
L'atto coraggioso di condividere e resistere
7 marzo 2025
In quest'ultima parte dell'intervista a Vito Davoli (...), il "me stesso" della poesia che solo si mette in sintonia con "l'oggetto" della parola, forma l'ideazione (e determina la scelta) di un approccio collettivo a un mondo altro.
Usando le tue stesse parole direi che proprio senza un palco, una classifica o un premio c'è la Poesia! Quelli che hai citato mi paiono più gli habitat ideali dei poeti o dei critici o, per lo meno, di certi poeti e critici. Non sto dicendo che vadano cancellati, proprio no. Dico che per lo più sono fraintesi, usati impropriamente, valorizzati in modo confuso e denaturalizzati. Se vale quanto detto finora, allora palchi, classifiche e premi, così come percepiti oggi nella maggior parte dei casi, non hanno nessun senso rispetto alla poesia che, nell'atto coraggioso di condividere e resistere si configura come il locus, tutt'altro che amoenus, nel quale il poeta (veicolo e "sacerdote") fa confluire quei contorni dell'essere umani che lì finiscono per confondersi e sintetizzarsi. Pertanto, forse, c'é bisogno dell'esatto opposto di un palco o di un premio... come in una sorta di congiura di ribelli: silenzio, concentrazione, riflessione e infine elaborazione e uscita allo scoperto.
Né parlerei tanto di anarchia quanto piuttosto di libertà nel senso più alto del termine, cioè di scelta mai disgiunta dal valore della responsabilità di quella scelta. Pasolini guardava alla poesia come "felice" avamposto capace di tenersi lontano e di resistere ai seducenti giochi del capitalismo e delle leggi di mercato; in maniera intrinseca alla sua stessa natura: non avrebbe cioè potuto essere diversamente. In un articolo del Corriere della Sera del 14 febbraio 2012 dal titolo La poesia è specchio della vita, Roberto Galaverini scrive: «Pasolini fa sempre maledettamente sul serio, a cominciare dall'assunzione della sua responsabilità di poeta: verso gli altri, verso se stesso, verso i suoi singoli e sempre integralmente etici gesti di scrittura. Fa così sul serio che la poesia, che pure costituisce per lui il principale dispositivo per pensare e dire la realtà (...), viene sempre in qualche misura avvertita come inadempiente e, dunque, come colpevole rispetto a qualcosa che resta comunque inespresso». Cercare di colmare quel divario, di risolvere quell'inadempienza attraverso la figura del poeta e, peggio, del poeta sotto il riflettore del palco, della classifica o del premio è un errore grossolano quanto tragico!
Essere un critico e curatore di numerose pubblicazioni collettive e antologie (del tuo Il Buio della ragione, scritto in collaborazione con Marco Cinque, ne abbiamo parlato nell’edizione dello scorso 13 dicembre) ha messo in evidenza una tua naturale inclinazione all’educazione alla sensibilità e alla parola. Come guardi la letteratura degli altri?
Per un indefinito senso di giustizia dovrei dire che guardo alla poesia degli altri allo stesso modo con cui guardo alla mia poesia ma credo ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in questo. Per diversi motivi che non posso, per ragioni di spazio, elencare tutti. Dirò solo che il curatore, il critico e il poeta sono competenze molto diverse. Vero è che è quasi impossibile oggi imbattersi in un poeta che non sia anche critico (o per lo meno che ci provi) e magari curatore di qualcosa. Non è vietato, per carità. Ma non è neppure una sorta di cursus honorum automatico. Dietro ognuna di queste singole figure c'è e deve esserci un percorso di formazione, studio ed esperienza ben distinto dalle altre due, che porti a risultati tali da poter essere capaci di distinguere il diverso approccio a un testo letterario da parte di un critico, di un curatore o di un poeta. E così anche le diverse risultanti elaborazioni. Se così non fosse, se, come dicevo inizialmente, mi accostassi alla poesia di altri come mi accosto alla mia, allora sarebbe abnorme il rischio di considerare valida solo quella poesia altrui che più si avvicini alla mia e, paradossalmente in una progressione identificativa, a considerare eccelsa solo quella poesia che risulti identica (e quindi che scimmiotti) la mia... ammesso che della mia poesia io ne dia una valutazione "eccelsa" e che non sia io stesso a scimmiottare qualcun altro. Voglio dire, solo, perfettamente collimante: e questo non è possibile.
I criteri e le categorie della critica letteraria, le valutazioni estetiche, il rapporto con la storia della letteratura e il modo con cui questa ha "dialogato" con la storia non possono rientrare consapevolmente nella produzione poetica: non sto scrivendo per la critica; non è quello il pubblico del poeta. Tutt'al più condividono o possono condividere lo stesso pubblico. La poesia non illumina sulla critica letteraria: viceversa sì. Alla critica il compito di stabilire se la mia poesia abbia un qualche valore (e quale) oggi e chissà per quanto ancora... Stesso discorso per il curatore: per quanto possa amare un poeta a me contemporaneo, se questo si propone unicamente come poeta d'amore, come potrei chiedergli di intervenire in un'antologia che parla di tortura (visto che hai citato Il buio della ragione)? Anche qui i criteri sono diversi da quelli del critico e del poeta. La letteratura degli altri - come la definisci tu - agisce su di me innanzitutto in quanto lettore, consumatore onnivoro di poesia. Poi, certo, se ci sono altre competenze, è inevitabile che prima o poi vengano fuori anche quelle. Basta solo saperle distinguerle senza confonderle. E dico "solo" con una certa ironia perché non credo sia operazione facile né mi esimo da una doverosa necessità di autovalutazione se parliamo di confusione di ruoli.