MARINA CARACCIOLO legge CONTRADDIZIONI (ed. Leucò, 2001)

La poesia di Vito Davoli, in questa sua prima bella raccolta intitolata Contraddizioni, mi ricorda inspiegabilmente i misteriosi masques e bergamasques della famosa lirica di Paul Verlaine [1]: quasi tristi sotto i loro fantastici travestimenti, vanno ammaliando un paesaggio singolare, suonando il liuto cantando l’amor corrisposto, anche se «ils n’ont pas l’air de croire à leur bonheur...».

Sembra comparire qua e là, come in un circo immaginario, fantasmagorico, un clown scanzonato e tuttavia pessimista, che nasconde le sue lacrime e la sua rabbiosa amarezza sotto il cupo riso della burla.
C’è un aggirarsi smarriti in una realtà disarticolata come frammenti asimmetrici di un puzzle, sconosciuta o difficile da comprendere e da accettare, quasi impossibile da ricucire: Non capisco neppure / se il vento che mi soffia tra le dita / al quale oppongo le mani spalancate / mi spinge avanti oppure / mi frena bruscamente...

E la luna (quale poeta mai non ha cantato la luna?) non rimanda a quella contemplativa, estatica e silenziosa, di Leopardi, ma piuttosto a quella della notte, spaventata e infreddolita, di Garcìa Lorca: ...piange sui tetti lacrime d’argento / strozza la notte / in un rigagnolo di solitudine. Qui è sempre una Luna che non splende. Roccia di cratere spento.

V. DAVOLI, Contraddizioni, Edizioni Leucò, Molfetta 2001 (prima edizione)


Immagini sensuali, anche proprio carnali, trasvolano frequenti tra questi versi, come nell’ansia di voler afferrare con mani voraci piaceri che il tempo, sempre più breve, consumerà tuttavia nella sua rapida e inarrestabile corsa, lasciando alfine irrimediabilmente delusi, come persi in un sogno fasullo.
In una realtà vista come un disperso mosaico di contraddizioni, che si infrange nei frammenti dei giorni / e fra i cocci taglienti delle ore, si cerca una corda a cui aggrapparsi, una qualche certezza a cui fare riferimento, pur sapendo bene che non esistono certezze.

Ma in questo atteggiamento, costantemente disincantato, quasi cinico, si aprono talora improvvisi e bellissimi squarci lirici: uno specchio dipinge nervosi profili / con l’argento, colore di luna; oppure: Nei capelli l’estate / posa un brivido d’oro / il tuo abbraccio sottile / ha l’odore dell’erba; e anche brevi scorci di paesaggi e di stagioni, vere o immaginarie, come: il resto è fuori, altrove / a colorare una sera d’agosto / che tramonta fra le scogliere dell’inverno... Allora il cielo fosco, plumbeo, pare aprirsi, anche se per poco, rivelando impensati sprazzi di luce.

L’inventiva poetica di Vito Davoli ha innumerevoli e multiformi immagini, sempre diverse, come oggetti o scene riprese da una videocamera che continuamente si sposta, e che sembrano sorgere, per una sorta di germinazione spontanea, le une dalle altre. E in ciò si ravvisa, forse, la sua maggiore bellezza. Così, in questo tormentato gioco di percorsi / a cui non so sottrarmi – scrive il poeta – egli riesce a darci infine, come ultima contraddizione, un quadro indubbiamente armonioso, attraente e insieme caleidoscopico, del suo mondo e del suo io.

Scritta quasi venticinque anni fa, questa silloge ha una modernità e un’attualità sorprendenti, a riprova che la vera poesia non invecchia, perché vive in una dimensione senza tempo.

Marina Caracciolo
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[1] Clair de lune (in “Fêtes galantes”, 1869)


V. DAVOLI, Contraddizioni, AMZ 2001 (seconda edizione 2021)
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