MAURO MACARIO legge "Tanto vale chiamarle Apocalissi"
C’è un modo macroscopico di vedere le apocalissi del nostro tempo, ad esempio ponendo l’occhio a una specie di telescopio roteante che individua nel mondo le grandi tragedie epocali: guerre, carestie, consumismo, disuguaglianze, e così poterne fare un saggio eruttivo, critico, mastodontico: la saggistica delle catastrofi.
Ma c’è una maniera microscopica che scorge le derive e i derivati più casalinghi, minimalisti, capillari, quotidiani, ugualmente rivelatori di tali avvelenamenti esistenziali e sociali e che usa uno zoom che li avvicina fino a ingrandirli nei dettagli: è questa cronistoria poetica di Vito Davoli che al contrario del sentimento tragico in uso, adotta l’arma dell’ironia, della satira, dello sberleffo.
Questo poeta-detective scende nelle strade, si confonde nella folla, ne registra le anomalie dei comportamenti e redige un trattato delle alienazioni sclerotizzate, ormai accettate come normalità. Come dire che la letargia collettiva è legittimata da uno stato di incoscienza diventata “Sistema”.
Il poeta in questione non piange, non si arrabbia. Per salvarsi svalvola il senso del ridicolo e lo fa proprio perché sappiamo che il rovescio della medaglia di ogni tragedia, è la comicità.
Lo sapeva bene quel genio meraviglioso (e rimpianto) di Dario Fo che sostituì alla critica seria del capitalismo di un Bertolt Brecht, l’anarchica risata del giullare che fingendo di stare all’interno della Corte del Re, in effetti lo sbeffeggiava demolendolo a sua insaputa.
Anche Ennio Flaiano, altro gigante della scrittura ironica, ci lascia un arsenale di distrazione di massa e pure Achille Campanile, non poeta ma umorista caustico, rimane nelle molecole di una italica difesa del buon umore davanti alle avversità.
Dietro a dei finali a sorpresa che spesso chiudono queste poesie c’è anche, sempre, la tristezza del clown perché è nelle risate degli altri che sgorgano le sue lacrime.
Bastano pochi versi a sterzare dall’allegra ironia a una riflessione desolante per dare il retrogusto a queste poesie: un amaro che non aiuta l'indigestione dei polli d'allevamento, come diceva Giorgio Gaber. tanto vale chiamarle apocalissi!
Mauro Macario
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